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ESCLUSIVA #LBDV – Poggi #ACasaConVlad: “Riprendere i campionati soltanto se ci saranno condizioni eque per tutti”
Grande appuntamento, questo pomeriggio, con #ACasaConVlad, la nostra rubrica social che ha visto ospite Paolo Poggi, ex attaccante di Udinese e Venezia ed attuale Direttore dei Progetti Internazionali della società veneta.
Di seguito riportiamo l’intervista completa.
Come stai vivendo questo momento e che prospettiva di ripresa c’è in una città che tanto sta pagando questa crisi? La società è preoccupata riguardo l’evolversi della situazione?
“Io personalmente la sto vivendo come tutti noi. Ci sono state tante emozioni che si sono susseguite nelle settimane: prima la paura, poi la consapevolezza di dover rispettare le regole, fino ad arrivare ad oggi in cui deve esserci la priorità di stabilire per bene le modalità di ripresa. Quando torneremo alla normalità non è detto che staremo peggio rispetto a prima: se vediamo il bicchiere mezzo pieno potremo anche uscirne meglio. Per quanto concerne la società, siamo in attesa di novità. Bisogna valutare se tutte le normative al vaglio del Governo per il prosieguo della A siano applicabili per la B e la C. Dal mio punto di vista vedo normative poco sostenibili per queste categorie”.
Nel 91-92 fai l’esordio nel calcio che conta con la maglia della tua città, per l’appunto il Venezia. Com’è esordire rappresentando la tua città?
“E’ stato emozionante perché fare l’esordio a certi livelli con la squadra della propria città è un privilegio. Tutti vorrebbero diventare protagonisti in campo con la maglia della città in cui si è nati e cresciuti. E’ stata una cosa che mi ha favorito perché fare questo grande passo con il supporto dell’ambiente che conosci e delle persone che conosci è importante. Questo porta certamente anche delle responsabilità, ma è stata un’esperienza bella per me”.
Nel 1992 passi al Torino, dove incontri giocatori di qualità e Mister Mondonico in panchina. Che ricordi hai di loro?
“E’ stato un passo effettivamente grandino. E’ coinciso con il mio anno di militare e questo significava viaggiare tanto ed avere molti impegni. Era una squadra che si faceva rispettare e con tanti giocatori davvero forti, tant’è che l’anno prima arrivò in finale di Coppa Uefa. Mondonico diede la spinta ad una squadra già qualitativamente forte”.
La vittoria della Coppa Italia con due gol contro la Juventus in semifinale?
“Quella è stata la mia rovina, perché poi uno inizia a credere che tutto sia in discesa (ride, ndr). Giocammo le due semifinali con i bianconeri e fare due gol in una partita molto importante per la piazza, quale è da sempre il Derby della Mole, è molto bello. I tifosi ancora mi ricordano quella doppietta a distanza di anni”.
A Torino l’anno dopo arriva Enzo Francescoli: cosa ci puoi dire di lui?
“Era un giocatore completo e di un’eleganza davvero incredibile. Era quel tipo di calciatore che, da solo, risolve le cose, senza bisogno di grandi aiuti. Se decideva di chiudere la partita, lo faceva senza particolari patemi”.
Quell’esperienza in granata ti ha aperto al mondo Udinese, che è stato uno dei trampolini di lancio della tua carriera. Lì, in particolare, sei stato allenato da un certo Giovanni Galeone: che tipo di allenatore era?
“Era un precursore dei tempi, vedeva un calcio già moderno per l’epoca. Lui non aveva bisogno di una squadra composta da venti giocatori, si accontentava di dodici. Ho avuto la fortuna di far parte di quella stretta cerchia di calciatori titolati e mi ha insegnato tanto”.
In bianconero ti sei incrociato anche con Francesco Marino.
“Aveva una velocità esagerata ed era comunque un giocatore che in una rosa molto forte ci stava alla grande”.
L’anno dopo arriva Zaccheroni. Il primo anno non fu proprio esaltante con il 3-5-2, ma l’anno successivo, con cambio modulo, quella squadra iniziò a carburare.
“Dopo il primo anno in cui riuscimmo ad ottenere la salvezza, arrivò un giocatore ‘scomodo’ per qualsiasi allenatore, Marcio Amoroso. Quando arriva un calciatore del genere con due attaccanti già titolari, diventa poi difficile farne fuori uno. Sembrava di difficile attuazione il 3-4-3, soprattutto per la difesa, che storceva un po’ il naso a questa ipotesi. L’assist del cambio modulo ce l’ha fornito la partita contro la Juventus. Ero in panchina, venne espulso un nostro compagno ma Zacccheroni decise di non togliere nessuno davanti, lasciando la difesa a tre. Quella fu la mossa che ci fece portare a casa la vittoria. Lì cominciò ad affiorare la consapevolezza che la cosa fosse fattibile. Nella giornata successiva andammo a Parma e riprovò il 3-4-3. Da quelle due partite e da quel cambio di sistema cominciò la nostra scalata verso il quinto posto finale, con tanto di piazzamento in Coppa UEFA”.
Amoroso era un grande calciatore che però fatico’ ad ambientarsi subito:
“E’ esploso quando ha capito come utilizzare le sue qualità adattandolo al contesto italiano. In Brasile aveva tutt’altri tempi di gioco. Eravamo consapevoli che potesse essere utile, e glielo abbiamo fatto capire noi come gruppo squadra. E’ stato intelligente nel capirlo e così è esploso. Aveva velocità ed efficacia, caratteristiche non comuni se assemblate”.
Più che andare in profondità, dietro a Bierhoff facevi un movimento particolare. Ce lo puoi spiegare nel dettaglio?
“Dipendeva sempre da dove arrivava la palla ed era un movimento ormai automatizzato e ripetuto in allenamento fino allo sfinimento. Capitava sempre che con la palla in verticale, uno veniva incontro alla palla e l’altro attaccava la profondità. Noi tre davanti non avevamo particolari compiti difensivi, se non rallentare la costruzione di gioco avversaria. La fase difensiva poggiava su tutti gli altri sette effettivi”.
Questi meccanismi ti hanno dato la consapevolezza di poter realizzare tanti gol anche solo riuscendo ad intercettare bene i tempi di gioco.
“E’ questione di frazioni di secondo. Riuscire a percepire e gestire i tempi di gioco è un dettaglio importantissimo. Un calciatore, così facendo, diventa imprendibile anche per un marcatore che ne conosce movimenti”.
Secondo turno di Coppa UEFA: di fronte vi trovaste l’Ajax. Ci sono particolari rimpianti a riguardo?
“Per la storia dell’Udinese, quella partita ha rappresentato molto. Secondo me abbiamo sprecato la qualificazione nel primo tempo di Amsterdam: non eravamo abituati a giocare in quel contesto e questo, a certi livelli, lo paghi. Al ritorno facemmo una partita perfetta ma, purtroppo, non bastò”.
Con l’uscita di Zaccheroni, in Friuli arrivò Guidolin. Ci furono molti cambiamenti?
“Non cambiò subito, ma Guidolin cercò di adattare le sue idee a quanto fatto in precedenza da Zaccheroni. Infatti non partimmo bene. Quando Guidolin iniziò a lavorare in maniera più decisa con le proprie idee, iniziammo a carburare”.
Archiviata l’esperienza dell’Udinese, è la volta della Roma: a conti fatti, lo reputi un errore?
“Io ormai non potevo più rimanere ad Udine, il mio tempo lì era finito. Dovevo solo scegliere dove andare in quel gennaio del 2000, e quando arrivò la Roma come avrei potuto scegliere altro? Visto che dovevo andare via, decisi di fare quest’esperienza in un top club. Chi ha la possibilità di fare una scelta di questo tipo, deve farla. Non nascondo che la rifarei anche adesso”.
In particolare ti volle Capello, che fece il tuo nome anche al Milan:
“La scelta di andare a Roma è stata valutata per bene ma rinforzata dal fatto che mister Capello mi voleva espressamente. Accettai con la consapevolezza che avrei potuto incontrare difficoltà. L’unico rammarico rimane di non aver sfruttato al meglio l’occasione. Lì non mi fecero mancare nulla e la colpa è stata soltanto del sottoscritto. In quegli anni si stava rivoluzionando l’ambiente Roma a 360°. La società fu brava perché seguì le indicazioni di Capello”.
Sull’esperienza al Bari:
“E’ stata necessaria perché la Roma stavano prendendo Antonio Cassano e quella soluzione faceva comodo a tutti. Quella società, nonostante la retrocessione, aveva una grande forza, con Matarrese Presidente e Fascetti allenatore. Ci sapevano fare e c’era una grande organizzazione societaria”.
Su Cassano:
“Era un giocatore atipico, non aveva caratteristiche e ruoli definiti. In qualsiasi momento sapeva inventarsi le cose dal nulla. Era totalmente geniale e vedeva cose che gli umani non potevano vedere coi suoi tempi di gioco”.
Poi arriva il Piacenza dove incontri Dario Hübner, il quale ha dichiarato, nel corso della diretta di ieri in cui è stato nostro ospite, che molto di quanto fatto lo deve a te:
“Dario spesso si sottovaluta. La sua forza l’ho vista solo in Batistuta. Travolgeva davvero tutti e poi la differenza la faceva l’umiltà che lo ha sempre contraddistinto. Quella era una grande squadra, Novellino diede la sua impronta e riuscimmo a salvarci nell’ultima giornata”.
Sul gol più veloce della storia della Serie A, messo a segno in un Fiorentina – Piacenza:
“Successe che Dario recuperò palla e mi si presentò l’occasione di sorprendere tutti. Devo dire che mi è andata molto bene (ride, ndr)”.
Dopo anni sei rientrato al Venezia: è stata una scelta di cuore?
“Negli anni in cui cominciò la mia carriera con la maglia del Venezia, Zamparini stava trasferendo tutta la sua squadra al Palermo e rimasero davvero pochissimi calciatori. Così mi venne quella spinta sentimentale e decisi di restituire parte di quello che la società mi aveva dato. E tornai, cercando di ricostruire la squadra”.
Come mai tanti giovani forti nelle giovanili poi hanno pagato lo scotto del grande salto?
“Il calcio è uno sport in cui non basta più avere soltanto qualità fisiche, tecniche e tattiche. Quello che fa la differenza è la forza mentale che deve unirsi alle altre qualità per mantenere il livello che la Serie A richiede”.
Ad Ancona tanti problemi:
“Tanti problemi societari con una situazione paradossale. In ogni caso, tutte sono esperienze e comunque, anche in quella situazione, ho avuto la possibilità di conoscere un ambiente interessante. Lì sono rimasto ingolosito dalla possibilità di tornare in Serie A. Questo mi fece capire che le scelte di un calciatore non devono tenere conto esclusivamente della categoria. Forse sarebbe stato meglio fare altre scelte. Per un calciatore conta lasciare il proprio segno. Abbiamo il privilegio di fare il nostro lavoro girando varie città e non ha senso cadere nell’anonimato”.
A Mantova due anni meravigliosi con la promozione in serie B e l’avvento in Serie A soltanto sfiorato. Che ricordi hai di quella parentesi e soprattutto del Presidente Lori?
“Non lo conoscevo prima di allora, anche se lui ha trascorso parte della sua vita a Venezia. Dario (Hübner, ndr) mi convinse a fare questa scelta rispetto alla quale ero un po’ restio. Non vedevo di buon occhio tornare indietro di ben due categorie. A livello personale, però, credo sia stata la scelta giusta. Facemmo l’impresa di riportare non solo la B, dopo anni, ma anche un entusiasmo che, se ci penso, ancora oggi mi fa venire la pelle d’oca. Praticamente la squadra e la città vivevano in simbiosi”.
Finita la tua carriera da calciatore, hai intrapreso quella dirigenziale. Che tipo di aspettative avevi all’epoca e cosa speri per il futuro?
“A fine carriera ho voluto provare alcune cose per capire la scelta giusta da fare. Subito dopo aver appeso le scarpe al chiodo, si rischiano dei passaggi a vuoto. Da calciatore non riesci a capire il calcio a 360 gradi. Dopo il primo anno di Mantova mi sono fermato e ho aperto una scuola calcio che è tuttora attiva. Lì ho cominciato a vedere il calcio in maniera più distaccata e questo mi ha permesso di fare scelte più razionali. Mi sono aggiornato e ho visto partite in giro per l’Europa. Così ho deciso di lavorare nel settore giovanile dell’Udinese, aiutato dal fatto di conoscere l’ambiente. Dopo tre anni mi serviva una pausa perché avere a che fare con le famiglie dei ragazzi non è semplice. Loro sono pressanti a livello di aspettative e, spesso, la cosa diventa difficile da gestire. Poi si è presentata la possibilità di tornare ancora a Venezia con Tacopina. Con lui abbiamo pensato allo sviluppo del brand ‘Venezia FC’ al di fuori dei confini nazionali. Queste società provenienti dall’estero hanno una visione sempre orientata al futuro a medio-lungo termine, dando tutto il tempo alle varie componenti di consolidarsi. Sfruttiamo in un certo senso il brand della città, dato che la società calcistica non la conoscono tutti nelle altre parti del mondo. Con il tempo e con l’esperienza abbiamo diversificato il nostro lavoro. Abbiamo iniziato a lavorare con le scuole, abbiamo aperto dei fan club e abbiamo ampliato il nostro pubblico di riferimento per la crescita del brand. Questa è una politica adottata da pochi in Italia ma che molti ancora tendono a non valorizzare”.
Questa politica può essere utile per la crescita della società, ma sarà comunque importante mantenere la categoria quest’anno.
“Mantenere la categoria aiuta. È giusto riconoscere che quando abbiamo iniziato eravamo in Serie C e le cose funzionavano perché il nostro traino era il brand della città. Abbiamo messo in campo la capacità di metterci la faccia e dal momento in cui inizi a lavorare in un certo modo, gli altri iniziano ad avere fiducia nel progetto”.
Ritieni giusto ripartire col Campionato, anche nel rispetto di piazze come Benevento che hanno praticamente vinto? Hai proposte a riguardo?
“Sono assolutamente d’accordo nel concludere la stagione ma solo se vengono fatti prevalere i diritti di tutti i cittadini. Non sono d’accordo nell’iniziare privilegiando certi settori. Mi piacerebbe che fossero garantite condizioni eque quando si ripartirà. Sarei contentissimo di finire il campionato e rispettare il cammino di squadre come il Benevento che ha disputato una stagione grandiosa, così come lo stesso Monza e la Reggina in C. La Serie A riprenderà ma è importante essere consapevoli che, dopo questa emergenza, non ritroveremo il calcio che siamo abituati a vedere. Siamo arrivati al punto in cui giocare senza pubblico appare come il male minore. E immaginiamo chi questa crisi la sta vivendo in prima persona, ad esempio l’Atalanta ed il Brescia. Si rischia che queste squadre siano demotivate e questo non sarebbe il vero calcio. E’ il tempo in cui chi prenderà delle decisioni dovrà assumersi le proprie responsabilità”.
Cosa ci puoi dire riguardo alla tua famosa figurina introvabile?
“È stata una storia che mi ha travolto nel ’97 e non ha finito di passarmi sopra (ride, ndr). È un ricordo incredibile perché ha segnato un’intera generazione”.