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ESCLUSIVA #LBDV – Bertotto #ACasaConVlad: “Avrei chiuso la mia carriera ad Udine. Sulla mancata convocazione ai Mondiali del 2002…”
Secondo ospite di giornata della trasmissione social de ‘Le Bombe di Vlad’ è Valerio Bertotto, storico ex capitano dell’Udinese, che ha avuto modo di ripercorrere la propria carriera nel corso della lunga intervista.
Di seguito riportiamo le sue dichiarazioni:
Come stai vivendo questo periodo di emergenza?
“Un po’ come tutti credo: restando a casa, rispettando tutte le direttive. E’ l’unica cosa che si può fare. Certo, siamo stanchi perché vogliamo vedere le cose migliorare, ma dobbiamo essere pazienti”.
La tua carriera da professionista comincia con la maglia dell’Alessandria.
“E’ stata la prima esperienza nel grande calcio, dove sono riuscito a realizzare il mio sogno. Ho fatto due anni di Berretti ed il terzo anno sono rimasto a fare il titolare in C1. Da lì sono arrivato in A, coronando quanto desideravo maggiormente nella mia vita: arrivare in A”.
Com’è stato l’impatto con questa realtà?
“Mi sono ritrovato nel calcio vero che guardavo a ‘90° Minuto’. Nello spogliatoio ho incontrato quei calciatori per cui tifavo alla TV. Per imparare a certi livelli, devi stare lì ad osservare, a seguire gli esempi che ti danno”.
Come si approccia una realtà cosi grande?
“Prima di andare ad Udine ho avuto diverse richiese: un paio di squadre di Serie B mi avrebbero dato tanti soldi. L’Udinese si è presentata con la metà della metà di quanto mi veniva offerto, però mi son detto che il treno della Serie A passa forse una volta nella vita. Ero convinto delle mie capacità, e ho voluto sfruttare questa occasione anche a costo di non tenere conto dell’aspetto economico”.
Su Borgonovo:
“Come calciatore aveva un talento puro, era tatticamente intelligente e vedeva la porta come pochi. Lavorava bene per la squadra ed era completo. Nello spogliatoio era un po’ casinista ma era una persona sana”.
Il campionato parte bene, con te che giochi abbastanza partite. In quel periodo però ci sono stati anche alcuni cambi di panchina.
“Adesso, essendo allenatore, dico che ci sono diverse dinamiche che subentrano. Quando le cose in una squadra non vanno bene si è soliti cambiare allenatore. Secondo me, se una società ha un progetto serio alle spalle e se la scelta del tecnico viene fatta con una certa accuratezza, questo rischio lo si deve limitare. Però è anche vero che le cose vanno male perchè il pallone spesso ti crea situazioni imprevedibili. Da calciatore, devi essere bravo ad adattarti alle idee del tecnico perché è il tuo lavoro e devi essere in grado anche di cambiare. Quando non si instaura una certa chimica tra il gruppo squadra e lo staff tecnico, le cose possono avere dei risvolti non positivi. Quello che mi capita di dire ai ragazzi che alleno è che lavoro per loro e non contro di loro. Quando entri in corsa, devi essere tu bravo ad immedesimarti. Ti vedono come un’ancora di salvataggio e la bravura sta nell’entrare empaticamente nella loro testa”.
Arriva Zaccheroni e cambia il modo di giocare. Cosa ha portato nella mentalità del gruppo?
“Sicuramente ha portato la sua grande professionalità ed una capacità di trasferire le proprie idee ad un gruppo che lo ha compreso col tempo. Quella squadra era un grande mix tra giovani e calciatori di esperienza. Abbiamo creduto molto in lui e le cose hanno avuto un risvolto quasi naturale. Ci sono state diverse situazioni in cui non si andava bene ma per fortuna fummo bravi a rimanere sulla linea di galleggiamento. Ciò ti dimostra che, al di là dell’aspetto dei risultati e degli aspetti economici che compongono il calcio, la valutazione sul lavoro deve avere una visione più a lunga nel tempo”.
Quell’anno arrivate quinti e la difesa assume le sembianze di quella che rimarrà di base negli anni. Con Zaccheroni c’è stato anche il passaggio al 3-4-3. Cosa cambia per un difensore?
“Cambiarono un po’ le dinamiche di gioco. La partita contro la Juventus fu lo spartiacque e venne fuori l’idea del mister di sfruttare le qualità offensive. In quella partita vincemmo 3-0 e da lì c’è stato un rafforzamento di questa sua ipotesi. Zaccheroni non aveva paura dell’uno contro uno. Era importante il lavoro di chi era alle spalle del marcatore e questo motiva e sgombra la mente da pensieri negativi”.
L’anno dopo va ancora meglio, raggiungendo il terzo posto. Che ricordo hai della partita contro l’Ajax in Coppa?
“E’ la partita che tutti ricordano con tanta tenerezza e rimpianti. Giocammo benissimo nelle due partite. Al ritorno il vecchi Friuli era strapieno e partimmo a duemila all’ora. Potevamo chiuderla nel primo tempo, ma evidentemente era destino che dovesse andare così. Quella partita rappresentò un’opportunità di crescita per tutti noi”.
Dopo Zaccheroni arriva Guidolin. Che differenze ci sono tra loro due?
“Ha mantenuto la difesa a tre, anche se a lui piaceva molto giocare con il trequartista. Ovviamente Guidolin aveva una vocazione diversa ed in quell’anno, nonostante il cambio, arrivammo di nuovo in Coppa Uefa”.
L’Udinese, in materia di giovani, dà l’idea di attendere il calciatore e, in un certo senso, di coltivarlo fino alla sua esplosione.
“All’epoca succedeva proprio così: prendevano dei perfetti sconosciuti che poi esplodevano. Quella era un’epoca in cui lo scouting cominciava a prendere piede. Ed in questo la società era all’avanguardia. Rendiamoci conto che non stiamo parlando di una grande squadra. E’ una società di provincia e riuscire a costruire una realtà cosi solida economicamente e organizzata in questo modo non è cosa da poco. Ci sta anche di incappare in qualche stagione negativa. E’ chiaro che la gente vorrebbe fare bene tutti gli anni, però certe situazioni non sono così facili da gestire”.
De Canio è un altro allenatore che forse ha raccolto meno di quanto meritasse:
“Ricordo che il primo anno andammo benissimo. Disputammo una bella stagione, poi le cose anche con lui si arenarono per mille vicissitudini che nel calcio capitano, come detto prima. Fortunatamente quella era una società e uno spogliatoio solido”.
Forse aver mantenuto per anni una certa ossatura ha aiutato nel tempo.
“E’ giusto così. Io ritengo che in tutti i settori della vita bisogna avere delle figure che siano di riferimento all’interno di un gruppo. Devi entrare nella testa di chi arriva nella squadra e devi farti recepire come una persona che vuole entrare in gioco sempre e comunque”.
C’è qualche rammarico sull’infortunio che forse ti ha negato la convocazione al Mondiale del 2002?
“Tra i tanti step della mia carriera avevo raggiunto una maturità psicofisica importante e Trapattoni mi stimava. De Canio un giorno mi chiamò e mi disse che ero stato convocato. Fu il coronamento di un sogno. Da lì inizio il mio percorso di un anno e mezzo con la Nazionale. So che c’era un posto nei 22 convocati per il Mondiale, però la vita a volte ti riserva la batosta che non ti aspetti. Mi crollò il mondo addosso, però il mio carattere combattivo mi ha aiutato tanto. Dopo quattro mesi dalla rottura del crociato ho rigiocato e questo lo devo al mio non mollare mai. Nonostante questo, vennero fatte altre scelte. Mi dispiacque, ma la mia coscienza è a posto. Ho fatto il massimo e non ho rimpianti”.
Su Sensini:
“Era un grandissimo calciatore, la sua storia parla da sola. Aveva una grande intelligenza ed è stato un elemento importante nello spogliatoio e nella squadra”.
Con Spalletti arrivate in Champions. Ci racconti della sua idea di calcio e della sua persona?
“Io lo ricordo con tanto affetto e stima perché lo ritengo uno dei più bravi in assoluto, per la sua capacità tecnica e di gestire il gruppo. L’allenamento con lui era molto tirato e la domenica quasi sembrava un gioco (ride, ndr.). Succedeva anche così con Zaccheroni: c’era una serenità ed una preparazione mentale e fisica elevata e la domenica sapevi cosa dovevi fare. Questo per un calciatore è un vantaggio importantissimo”.
L’ultimo anno di Spalletti è stato il più intenso, riuscendo a coronare il sogno di un’intera città. Ti ricordi un po’ la festa della qualificazione?
“Se la Juve vince lo scudetto è scontato, mentre se l’Udinese si qualifica in Champions sembra una cosa impossibile. Questa è l’ulteriore ciliegina sulla torta della mia carriera”.
Che si prova a giocare in stadi come il Camp Nou?
“Nei tre anni abbiamo avuto una crescita importante della squadra. Ci giocammo I preliminari con il Lisbona e li tritammo, nonostante loro fossero abituati ai grandi palcoscenici. Da quel punto in poi, va bene tutto. Fino a cinque minuti dalla fine, rischiammo di passare agli ottavi in un girone con Barcellona, Panathinaikos e Werder Brema. Non andammo avanti per la differenza reti, facemmo sette punti in Champions che non sono pochi. C’è rammarico nel non aver tenuto duro in quegli ultimi minuti, ma il calcio è anche questo”
Cosa ti sei detto con Dinho in quel famoso fine partita?
Gli avevo semplicemente chiesto la maglia (ride, ndr.). Mi piace avere il ricordo dei calciatori con cui ho giocato. Ho vissuto nell’epoca più importante calcisticamente parlando in Italia. Ho raggiunto un certo livello ed è gratificante affrontare campioni di un certo calibro”.
Arrivò Cosmi che veniva dagli anni di Perugia. Tuttavia delle vicissitudini ti portarono a chiudere la tua esperienza in bianconero. Quanto ti è pesato lasciare la squadra non per colpa tua?
“La cosa che ho sempre fatto nella mia carriera è aver messo al centro del mio percorso il bene della gente che avevo intorno. Ho vissuto da capitano il periodo migliore e credo che alcune cose andassero gestite meglio. Ho dato tanto, ma comunque probabilmente qualcuno ha pensato che non fossi più adatto. Non ho scelto io di andare via dall’Udinese, avrei finito lì la mia carriera. Quando vengono fatte e dette certe cose, subentra anche l’orgoglio personale. Ho fatto di tutto per quella causa e sentivo di meritarmi quantomeno il giusto”.
Sull’esperienza a Siena:
“Siccome mi sentivo ancora un calciatore, ho dovuto continuare il mio percorso. Ho trovato delle persone che mi hanno stimato tantissimo. Parlo di Perinetti e Beretta che mi hanno cercato a Siena e sono andato lì con piacere. I due anni vissuti lì hanno dimostrato che potevo reggere ancora certi livelli. Abbiamo fatto bene il primo anno, e molto bene il secondo anno”.
La parentesi di Venezia dimostra la tua voglia di non appendere scarpini al chiodo. Esperienza che si è interrotta per problemi societari.
“Volevo riappropriarmi del mio mondo e rimanere in Serie A. Successe che ero svincolato e sembrava quasi che io dovessi presentare il curriculum. Nel frattempo mi allenavo e speravo che mi prendesse qualcuno. Mi chiamò Poggi che mi chiese una mano per salvare la squadra. Accettai per rispetto dell’amicizia di Paolo ed anche per non rimanere fermo. Poi la società fallì e a quel punto sembrò quasi che tutte le porte si fossero chiuse. Non volevo perdere tempo, avevo ancora tanti stimoli e quindi decisi di prendere il patentino”.
La tua prima esperienza da allenatore è nella Nazionale U20 di Lega Pro:
“E’ stata inaspettata: mai e poi mai avrei pensato di arrivare lì subito dopo aver preso il patentino. Mi è stata offerta la possibilità di poter essere il selezionatore, abbiamo creato un certo feeling e capirono che avevo voglia di mettere su un bel progetto. Mi hanno dato carta bianca e aggiungemmo prima l’U18 e poi l’U16. Abbiamo anche creato una rete osservatori che prima non c’era. Abbiamo scovato dei giovani che hanno fatto un bel percorso, tant’è che oggi tanti giocano in Serie A. Non erano calciatori in prestito da squadre di A, ma erano delle squadre di C e che forse a volte nemmeno giocavano titolari.
Ti piacerebbe qualche esperienza in Italia?
“Starei benissimo in Italia. Ho già avuto esperienze in C positive, nonostante alcune problematiche. Ritengo di conoscere la materia per cui mi sono formato, e l’aver fatto il calciatore credo sia un plus. E’ un vantaggio se riesci a trasferire la tua esperienza da calciatore alla squadra che alleni. Sono molto ambizioso, ed è la mia storia che parla per me in tal senso. Voglio arrivare in alto e se serve fare esperienze all’estero sono pronto. Mi auguro che questa grande passione mi porti soddisfazioni. In Italia questo è difficile ma non mollo”.