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ESCLUSIVA #LBDV – Manfredini #ACasaConVlad: “Non sarei mai andato via dall’Atalanta”

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Pomeriggio ricco di appuntamenti targati #ACasaConVlad, trasmissione social curata da Le Bombe di Vlad.

Primo ospite è Thomas Manfredini, ex difensore di Atalanta e Genoa, tra le altre, che ha rilasciato alcune dichiarazioni nel corso della diretta.

Di seguito proponiamo l’invervista completa.

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Come stai vivendo questa situazione di emergenza?

“È un periodo un po’ difficile, diciamo che ormai non so più che fare (ride, ndr.) Tra un po’ di corsetta, un po’ di allenamenti e un po’ di computer, il tempo in qualche modo passa. Fortunatamente ho un po’ di spazi anche all’aperto a casa e, grazie alle condizioni meteo quasi sempre buone, posso sfogare anche così. Sembra non mancare ancora tanto tempo, ma dopo un po’, tutto sta diventando monotono”.

La tua carriera inizia nelle giovanili della SPAL, e a Ferrara fai le prime presenze da professionista. Che impatto hai avuto con questa realtà?

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“Successe tutto all’improvviso. A 17 anni feci il primo ritiro però l’anno prima ero negli Allievi Regionali. All’epoca non passai quasi nemmeno per la Berretti che entrai in prima squadra. Quindi l’impatto è stato molto pesante, perché poi avere a che fare con dei calciatori con una certa esperienza non è facile. Si lottava per vincere il campionato ed il livello quindi era alto. Oltre che essere pronti dal punto di vista tecnico – tattico bisogna farsi trovare pronti pure mentalmente perché non è proprio facile. È stato bello perché è un po’ come fare il servizio militare: ho dovuto subito rispettare delle regole per poter entrare in questo mondo”.

Prima quelle categorie erano davvero di spessore, caratteristica che forse è andata scemando con gli anni.

“Prima c’erano calciatori in C che potevano giocare tranquillamente anche nelle categorie superiori. Non so cosa sia cambiato in particolare, però negli anni il calo del tasso tecnico ha influito molto in questo. All’epoca mi è capitato di incontrare calciatori con una certa esperienza e giocare contro di loro mi ha insegnato tanto e mi ha, in un certo senso, fatto fare le ossa. Prima i calciatori promettenti venivano mandati nelle categorie inferiori e dovevi sudare la possibilità di esordire in A. Adesso alcune società magari tendono a trattenere il calciatore promettente, però rischi di non formarlo come si deve. Poi è chiaro che l’eccezione c’è sempre, ma si tratta di calciatori che nascono sotto l’aura di grande campioni”.

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L’anno di Ferrara ti permette di andare all’Udinese. Un ambiente simile per certi versi ma quella friulana è una società storicamente forte ed organizzata. È davvero così?

“È il modello che conosciamo tutti. Cercano il giocatore promettente e lo aspettano, aiutandolo nella sua esplosione, per poi cederlo. Sono pochi i calciatori che sono rimasti in bianconero per tanti anni, forse solo Totò (Di Natale, ndr.), ma quella è una scelta personale. L’Udinese è stata tra le prime società a scovare talenti in Africa, ed è un modello interessante. Da calciatore ho vissuto anche la realtà dell’Atalanta, che invece i talenti se li crea in casa, mentre magari i Friulani hanno più una visione orientata verso l’esterno. Due modelli differenti, ma ugualmente efficaci”.

La difesa a 3 targata Udinese è stato un sistema che ha rivoluzionato un po’ il calcio di qualche decennio fa. Come hai vissuto da protagonista questi meccanismi?

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“Io credo che l’Udinese sia stata una delle prime squadre che ha affrontato il campionato di Serie A con una difesa a 3. A quei tempi non c’era una grande cultura su quel meccanismo. L’Udinese invece ha costruito quasi sempre le squadre proprio su moduli come il 3-5-2 o il 3-4-3. Il cambio di difesa da 4 a 3 mi ha fatto crescere, mi ha fatto conoscere un’altra metodologia di lavoro perché gli spazi e i movimenti sono diversi. Con una difesa a 3 tendi più ad allargarti, ed è questo quello che poi mi ha portato in carriera ad essere spostato spesso come terzino. Diciamo che mi sono adattato a giocare sulla fascia quando sono ritornato ad un’impostazione a 4, perché sono tempi completamente diversi ed io nasco puramente come un centrale difensivo. Da terzino hai bisogno di tanto fiato, altrimenti non si fa bene nè la fase offensiva né quella difensiva”.

Ad Udine sei stato allenato anche da Spalletti, allenatore che ha raggiunto ottimi risultati in Friuli e non solo. Cosa ci puoi dire di lui?

“Secondo me ha sempre avuto ottime idee, però nel calcio c’è bisogno anche di fortuna. Cosa che non ha avuto poi, in quanto non sempre è riuscito ad esprimersi con una certa continuità. Ad Udine ha trovato un mix interessante di giovani e di calciatori di esperienza, facendo bene. Sa bene il fatto suo e ama avere un rapporto franco con i suoi calciatori. Anche dopo essere andato via da Udine ha dimostrato di saperci fare con altri schemi di gioco, e questo dimostra una certa competenza. Però di base è un uomo dalla forte personalità, e per questo io stesso ho avuto con lui anche degli screzi. Ma è un allenatore che mi ha dato tanto e a cui sarò sempre grato. È uno dei migliori che mi abbia allenato”.

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La cessione dall’Udinese è dovuta proprio a questi screzi con mister Spalletti?

“Il primo anno lì feci bene: a 19 anni ero riconosciuto come uno dei giovani più interessanti ed ero nel giro dell’Under 21. Dopo l’ultima stagione, che fu per me estenuante, mi resi conto che avevo bisogno di nuovi stimoli, pur essendo riconoscente all’Udinese. Con mister Ventura e poi anche con Spalletti ho giocato, ma alcuni problemi fisici mi hanno un po’ frenato. E allora pensai che avevo bisogno un po’ di staccarmi da quell’ambiente. Andai in prestito alla Fiorentina in B, con un campionato davvero forte, e così facendo andavo comunque in una piazza che voleva vincere il campionato”.

Quella Fiorentina, allenata da mister Mondonico, era una squadra forte. E quella promozione in A fu una grande soddisfazione.

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“Assolutamente. Conquistammo la promozione all’ultimo contro il Perugia, che era una squadra di tutto rispetto e che forse ha pagato il fatto che avessero molto da perdere. Tutta Firenze ci spinse verso questo traguardo ed è una cosa che ricorderò sempre”.

Nella scelta di un calciatore, quando deve cambiare squadra, quanto pesa il fattore del blasone e della storia della piazza in questione?

“Per mettersi in gioco e dimostrare quanto vali hai bisogno anche di fare scelte pesanti. Ero un giovane promettente, ma avevo bisogno di continuità, che per problemi fisici mi è mancata in Serie A. Ho comunque fatto tanti anni di fila di Serie B per trovare questa continuità. E poi credo che il fatto che molti mi vedessero come terzino non mi abbia consentito di farmi esprimere al 100% delle mie possibilità. Però i miei anni in B mi hanno aiutato tanto, e ho affrontato campionati importanti con maglie importanti”.

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L’anno dopo vai a Catania e incontri mister Sonetti: che persona è?

“Era uno che ci faceva fare grandi risate (ride, ndr.). È una grande persona ed un allenatore vecchio stampo. Certo, il calcio è cambiato ed abbiamo assistito ad un ricambio generazionale, ma è uno che ha dato tanto a questo sport”.

Il passaggio all’Atalanta:

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“In quell’anno andai a Bergamo con buone intenzioni. Inizialmente Bellini doveva essere ceduto e pensavo si potesse liberare un posto per me. Alla fine è rimasto, facendo tra l’altro la storia in nerazzurro, e quindi iniziò il mio giro di prestiti che mi ha fatto crescere”.

Le due stagioni in prestito ti hanno dato tanto. A Rimini, Acori ha dato una forte impronta: che rapporto hai avuto con lui?

“Non un granchè. Diciamo che sono arrivato in una squadra che era un po’ come una famiglia. Confermarono la maggior parte dei calciatori e poi c’era il presidente Bellavista che era una persona di spessore. Con Acori non mi trovai benissimo: avevo comunque le mie presenze in A ed in B e non so perché non venni considerato molto. A fine allenamento mi faceva addirittura fare sedute individuali di tecnica. Mi fece esordire contro il Modena, che era una delle squadre più attrezzate. Vincevamo 1-0 e sfortunatamente procurai un rigore per gli avversari. Negli spogliatoi successero poi delle cose e quindi il rapporto tra me ed Acori si incrinò. Un’altra volta in un pre-gara annunciò me titolare, quasi sfidandomi. Non so cosa scattò in me, e da lì iniziai a giocare e fare bene. Il mister l’ho poi incontrato in un secondo momento, mi ha anche chiesto scusa. Sono cose che capitano nel calcio. Ciò non toglie che a Rimini mi sono trovato bene, tant’è che adesso vivo a Riccione”.

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Sulla stagione a Bologna e su Mister Ulivieri:

“Bologna è stata una piazza importante. Il mister aveva la sostituzione matematica del terzino sinistro, quindi da questo punto di vista ho un po’ pagato (ride, ndr.). Fece bene a Bologna. Una volta addirittura non mi fece giocare contro la Juventus perché mi vide un herpes, e temeva che fossi abbastanza sotto stress”.

Il ritorno a Bergamo:

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“Ritornai che i titolari erano Bellini e Talamonti. Subentrai a quest’ultimo in una partita contro l’Inter. Lui si infortunò, entrai e giocammo bene, vincendo 2-1. Da allora mister Del Neri decise di puntare su di me e su Bellini. È un allenatore che mi ha dato tanto e che mi ha voluto ovunque esso sia stato, anche alla Juventus”.

Su Talamonti:

”Era un gran bel difensore, forte di testa. A causa di alcuni problemi fisici non ha fatto quanto meritava. Se non fosse stato per questi problemi, sarebbe stato ancora più importante per la causa Atalanta”.

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L’anno dopo raggiungete una salvezza tranquilla. Vieri non visse una stagione particolarmente tranquilla.

“Secondo me ha pagato il fatto che già conoscesse la piazza. A fine carriera ha avuto qualche problema fisico, ma posso dire che di giocatori forti come lui ne ho visti pochi. I suoi problemi fisici lo bloccarono in quel periodo e il fatto di non riuscire più ad esprimersi a certi livelli, secondo me, l’ha portato a chiudere la sua parentesi all’Atalanta”.

A Bergamo hai trovato anche Antonio Conte, che lì non ha espresso il massimo.

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”È un perfezionista e molto meticoloso. Era venuto con l’idea di portare il suo 4-2-4 dei tempi dell’Arezzo. E credo che certi sistemi non possano essere adatti ad una squadra che deve lottare per non retrocedere. Non si può essere troppo offensivi. Finita la sua avventura arrivò mister Mutti e con lui nel girone di ritorno abbiamo fatto 22-23 punti. Siamo retrocessi all’ultima giornata contro il Bologna, a causa di episodi discussi. Ho sempre pensato sia giusto che gli allenatori portino le proprie idee, ma ci si deve calare comunque nella realtà del gruppo”.

Negli anni seguenti fate bene e ritornate stabilmente in A con Colantuono. Che calciatori erano Denis e Moralez?

“Ritornammo in A e non fu facile giocare con il peso sulla testa dei punti di penalizzazione. Alla fine poi quel gruppo ha fatto benissimo, tant’è che ha scritto pagine importanti nell’almanacco dei record fino ad allora. German e Maxi erano come marito e moglie (ride, ndr.), si trovavano a meraviglia. Il primo praticamente esplose a Bergamo, l’altro invece aveva caratteristiche particolari per il nostro campionato. Era imprendibile”.

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L’anno dopo passi al Genoa: qualcosa non è andato?

“A Bergamo arrivò Pierpaolo Marino, grande DS per una società di calcio, ma non mi sono trovato con lui. Si dovette confrontare con me, che ero lì da tanti anni, ed avevamo delle visioni molto distanti. Mi disse: ”Questo è il club Atalanta e non il club Manfredini”. Io volevo rimanere, e anche Colantuono voleva che io restassi. Ad un certo punto la società iniziò a prendere altri giocatori con più anni di contratto e garantendo più soldi. Non dico che mi aspettassi un riconoscimento, però neppure un distacco così doloroso. E così iniziai a valutare le offerte delle altre società, tra cui quella del Genoa di Del Neri”.

Sul Genoa:

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“Il club lo conoscevo solo da avversario, ma il fatto di vivere quell’ambiente è una di quelle cose che in carriera, se non avessi fatto, mi sarebbe mancato. Ho avuto la fortuna di conoscere anche mister Gasperini. Purtroppo quella é una realtà che fa fatica perchè ogni sessione di mercato cambiano 14-15 giocatori. Sono scelte societarie ma il Genoa non merita ogni anno di soffrire”.

Su Gasperini:

“Quell’anno lì era uscita la tecnologia dei GPS, e quindi il suo lavoro è diventato ancor più maniacale. Arrivavamo alla domenica ancora stanchi, perchè la settimana era un massacro. Gasperini è un grande allenatore e lo sta dimostrando adesso a Bergamo. L’unico suo neo rimane il suo fallimento all’Inter. Lì voleva introdurre la difesa a tre ma erano tutti calciatori abituati a giocare e a vincere in un certo modo. A Bergamo invece hanno avuto la pazienza di aspettarlo, ma non dimentichiamo che non era partito bene all’inizio”.

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Alcuni calciatori che vanno via dall’Atalanta pagano lo scotto del cambiare totalmente ambiente, come ad esempio Gagliardini. È così complicato distaccarsi da questa realtà?

“Bergamo è una situazione diversa come ambiente. Per giocare in certi stadi come il San Siro c’è bisogno di tanta verve. Prima per arrivare ad una suqadra top servivano più anni. Adesso invece bastano pochi mesi e subito fai il grande salto”.

Sulla sua esperienza a Sassuolo:

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“Lì ho subito un brutto problema fisico. Mi sono sottoposto ad alcune terapie particolari che mi hanno tenuto fuori per mesi e mesi e non è stato semplice. E’ stato uno di quegli anni in cui dicevo (ed è brutto anche da dire): “Non mi frega, tanto guadagno lo stesso”. Sentire certe cose non mi ha fatto bene perché ho dato sempre tutto, e spesso nella mia carriera ho giocato anche da infortunato. Davvero lì avevo bisogno di un mental coach. Non è stata una bella parentesi, ma ho conosciuto una struttura societaria avanti anni luce”.

Il passaggio a Vicenza:

“Lì mi sono preso le rivincite rispetto a quello che mi è successo prima. Non mi volevano più perché si diceva che io non fossi più al top. A Vicenza sono andato per il mio procuratore che mi disse che dovevo giocare. Sono arrivato lì ed arrivammo ai playoff. La gente ci ringraziava perchè era tanto tempo che non viveva certe cose. Qualche acciacco l’ho avuto comunque, però ho mostrato le mie potenzialità al massimo”.

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Come nasce la tua passione per l’ippica?

“Da piccolo dicevo sempre che volevo fare il driver. Mio padre giocava ai cavalli, però non ci si poteva permettere un cavallo. Mi sono sempre detto che avrei voluto prendere un cavallo giocando a calcio, ed al primo contratto firmato così ho fatto. Nel calcio non ho mai svelato questa passione perchè su questo mondo ci sono certe voci che fanno male. Ci servirebbe più informazione a riguardo”.

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