Approfondimenti
A(F)FONDO – #stayhuman
Weekend calcistico intenso, quello in Bundesliga. Non tanto per le imprese legate al pallone quanto per i segnali levati in segno di protesta dopo i fatti americani. E, precisamente, dopo la violenta morte di George Floyd, a Minneapolis, per mano di un agente di polizia.
Una morte come tante altre, purtroppo. Troppe altre. Non accidentale e, soprattutto, evitabile. Una morte che non può connotare più, e ancora oggi, un Paese così bello e così ricco di contraddizioni. Un Paese dove ancora il fatto di essere nero fa la differenza e può determinare, in alcuni casi, la sorte di una persona. Un Paese dove non muore solo George Floyd, ma che muore esso stesso.
Anche l’universo calcio, laddove possibile, ossia in Germania, ha fatto sentire la sua voce.
Sabato, il centrocampista statunitense Weston McKennie, dello Schalke 04, ha giocato con una fascia al braccio che recava la scritta: ‘giustizia per George‘.
Ieri, domenica, Marcus Thuram, giovane francese del Borussia Moenchengladbach, figlio del noto Lilian, si e’ inginocchiato, con la testa abbassata, dopo il secondo dei suoi due gol segnati all’Union Berlin.
Si è inginocchiato a terra con la testa abbassata. Proprio come il giocatore di football americano, Colin Kaepernick, nel 2016, quando si inginocchiò all’inno Usa, in segno di protesta. E come ha fatto anche la calciatrice americana Megan Rapinoe che, durante i Mondiali di calcio femminili, non aveva cantato l’inno e, precedentemente, si era inginocchiata durante l’inno stesso, in segno di solidarietà con lo stesso Colin Kaepernick, che aveva scelto quel gesto per protestare contro le violenze della Polizia nei confronti degli afroamericani.
Più tardi, Jadon Sancho e Achraf Hakimi hanno mostrato una maglia con delle scritte inerenti i fatti di Minneapolis.
In un momento storico come il presente, lo sport può e deve contribuire a dare lezioni di civiltà, inclusione e rispetto. E’ necessario che siano attivati alcuni processi culturali per evitare masse incapaci di soggettività. E per superare i pregiudizi, occorre “costruire” un’azione educativa.
Il calcio è parte della cultura e non può prescindere da questo sport la lotta al razzismo. Gramsci sosteneva che la cultura è organizzazione, disciplina del proprio Io interiore; è presa di possesso della propria personalità e conquista di una coscienza superiore per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti ed i propri doveri.
E allora, forse, è tempo di fare qualche riflessione. Perché non si tratta di essere bianchi o neri, poliziotti o civili, italiani o stranieri. Si tratta semplicemente di essere umani.
Quando accadono fatti del genere, non è colpa solo di persone così. Nella vita, nello sport, nella politica, nella quotidianità. Schiacciati da indifferenza, mancanza di empatia e impassibili a ogni forma di emozione positiva. Pervasi e accecati dalla rabbia e dalle proprie convinzioni.
Ma non è colpa solo di gente così.
Siamo tutti colpevoli. Ogni volta che restiamo fermi e che restiamo in silenzio di fronte ai piccoli gesti di “razzismo” che compiamo quotidianamente, ai giudizi gratuiti che siamo sempre pronti a dare, alle definizioni non richieste e non necessarie che naturalmente utilizziamo per identificare qualcosa che, spesso, semplicemente non conosciamo bene.
Quando parliamo di politica, abbiamo sempre qualcosa da dire. Non riusciamo a tacere neppure di fronte alla morte in mare di un bambino o di gente disperata che non ha scelta: vivere o morire.
Quando siamo allo stadio.
Ma lì – dicono alcuni – si tratta di sfotto’ tra tifosi. Sembra quasi stucchevole parlare ancora di certe cose. Eppure assistiamo a continui episodi di intolleranza a tutto ciò che è diverso e sconosciuto. Eppure i vari episodi di Koulibaly, Balotelli, Lukaku ci dicono il contrario.
E ci dicono che tutte le volte che giustifichiamo questi gesti, siamo in qualche modo simili a quell’individuo che con un ginocchio ha schiacciato il collo di un ragazzo fino a soffocarlo senza ascoltarlo, senza vederlo minimamente.
Forse tutta questa aggressività è la conseguenza di un profondo vuoto.
Vuoto di cultura: cultura è apertura non chiusura.
Vuoto di emozioni: l’unica è la rabbia, mista ad insoddisfazione.
Vuoto di significati: ci si rifugia in facili generalizzazioni e stantii luoghi comuni.
Vuoto di passioni: il calcio è altro e nulla ha a che fare con tutto ciò.
Aristotele diceva: “Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal suo senza la necessità di accettarlo”.
Ogni volta che non riusciamo a difendere l’umanità, ogni volta che siamo complici di questi gesti, piccoli o grandi che siano, rafforziamo quell’indifferenza di fronte al dolore e alle richieste di aiuto.
Floyd non riusciva più a respirare. Noi, tutti noi, invece, finché avremo voce, armiamoci. Armiamoci come suggerisce un grande americano, P.Roth. “Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile”.
Basterebbe essere umani.
Nulla più.