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Le mille vite di Fabio Capello e un unico filo conduttore: la vittoria

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C’è stata un’epoca in cui, nel calcio italiano e europeo, se una società avesse  avuto l’urgenza di vincere non aveva poi molte alternative. Doveva solo prendere il telefono, scorrere la rubrica e comporre il numero della persona cercata: Fabio Capello.

Tra il 1991 e la prima decade del 2000 l’uomo nato a Pieris, Friuli, il 18 giugno del 1946 è stato, probabilmente insieme a Marcello Lippi, il tecnico più vincente del Mondo.

Per capire la formazione calcistica di questo personaggio bisogna tornare indietro di molti anni fino ad approdare nella città di Ferrara dove nella Società Polisportiva Ars et Labor, più comunemente conosciuta come S.P.A.L, Capello diventa calciatore facendo comprendere però prima la pasta dell’uomo. Dopo aver dato la parola al presidente della società biancoazzurra Mazza infatti su di lui piomba il Milan che, con Gipo Viani, prova a convincerlo a cambiare idea. Il prestigioso diavolo al posto della più umile Spal. Ma Fabio è irremovibile: “Ho dato la mia parola e la mia parola è una sola”

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La carriera di Capello tornerà poi ad incontrare il rossonero che, insieme alle maglie di Roma e Juventus, saranno le sue vesti per ben 16 anni di calcio giocato con all’attivo 4 scudetti e due coppe Italia.

Se però bisogna scegliere una fotografia della sua vita in pantaloncini e maglietta non vi è alcun dubbio su quale prendere dall’album dei ricordi: la maglia azzurra della Nazionale indossata il 14 Novembre 1973 a Wembley. Quella sera grazie ad un suo gol, dopo una sgroppata poderosa di Chinaglia, l’Italia batte per la prima volta a domicilio i maestri inglesi entrando di diritto nella storia.

Quando si tratta di appendere gli scarpini al chiodo il proseguimento della carriera sembra una logica comseguenza. La panchina della primavera del Milan come trampolino di lancio e addirittura l’esordio in serie A in sostituzione di Nild Liedholm esonerato.

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6 partite per assaggiare, da tecnico, il grande calcio e una qualificazione in Uefa dopo uno spareggio con la Sampdoria.

Invece la sorpresa è dietro l’angolo: niente panchina ma una scrivania come dirigente della Polisportiva Mediolanum

Ritorno in Panchina

L’esilio finisce nel 1991 quando Silvio Berlusconi ha bisogno di un nome per sostituire Arrigo Sacchi chiamato a fare il c.t. dell’Italia. Se c’è una cosa che il Cavaliere fa meglio di chiunque altro è scegliere gli uomini, scoprire prima degli altri le potenzialità, capire qualità e doti.

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Ed è cosi anche stavolta, allo scetticismo iniziale si sostituisce l’ammirazione per l’eccezionale capacità di gestione del gruppo. Prima degli altri infatti Capello capisce l’importanza di una rosa lunga diventando uno dei precursori del turnover. Il Milan di Sacchi, che sembrava arrivato al capolinea, viene rivitalizzato da Fabio.

Meno pressing, meno fuorigioco, una nuova posizione per Gullit, spostato sulla fascia, e l’intuizione di un Albertini giovanissimo come perno del suo centrocampo.

Vince tanto quel Milan, 4 scudetti di cui 3 consecutivi e una Coppa dei Campioni spettacolare contro il Barcellona di Cruyff.  Proprio quell’anno Capello fa capire a tutti quanta intelligenza calcistica possiede: in un’annata in cui i suoi migliori attaccanti sono spesso fermi ai box per infortuni cambia impostazione della squadra. Punta tutto sulla difesa più forte del mondo composta da Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini. Agli insuperabili quattro aggiunge Marcell Desailly, difensore francese appena acquistato. Con un’intuizione geniale lo schiera davanti alla difesa cambiandogli ruolo: il risultato è strepitoso. Il Milan praticamente non subisce mai gol, saranno solo 15 in tutto il campionato, consentendo a Sebastiano Rossi di mantenere la porta inviolata per 929 minuti, un record. La finale con il Barcellona poi è un opera di maestria tattica: Massaro e Savicevic fanno impazzire la retroguardia blaugrana, i difesa non passa nessuno e il 4a0 finale va addirittura stretto al diavolo.

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Il tempo di un altro scudetto rossonero, il quarto in cinque anni, e il telefono di Capello squilla. È tempo di cambiare aria, addirittura nazione.

Don Fabio

Chi chiama ha l’accento caldo iberico, è Lorenzo Sanz, presidente del Real Madrid. La sua squadra ha appena disputato la peggiore stagione dal 1977 e chi, se non Capello, può far risorgere la casata blanca?

Vince subito la Liga, al primo tentativo, ma il rapporto con il presidente non è buono. Decide di lasciare subito il Real ma lo fa da vincitore.

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Lo richiama Berlusconi e lui accetta di tornare al Milan, al cuore non si comanda. Ma sarà un errore, uno dei pochi commessi nella carriera. Una minestra riscaldata come dirà anni dopo. Perde una finale di Coppa Italia contro la Lazio all’Olimpico di Roma e si commiata per sempre dal diavolo.

Ed è proprio a Roma che il destino lo vorrà un anno dopo.

Da Don a Re

La Roma non vince da troppi anni, quasi 20 ne sono passati dall’ultimo trionfo giallorosso. Nel suo primo anno sulla panchina romanista addirittura vince lo scudetto la rivale cittadina, la Lazio. No cosi non va, non può essere. Chiede al presidente Franco Sensi uno sforzo sul mercato e viene accontentato: arriva Gabriel Omar Batistuta.

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Il re leone si aggiunge al capitano Totti per cercare la rincorsa al titolo. Ma chi ha osservato da vicino quella Roma sa che, oltre ai fantastici attaccanti a disposizione, serve che Capello compia un altro capolavoro tattico. Piazza dietro una linea di tre difensori fortissimi, composta da Zago, Samuel e Zebina, dando cosi spazio sulle fasce alle scorribande offensivo di pendolino Cafù e di Vincent Candela. Centrocampo tosto con Tommasi, Emerson, Zanetti e Lima ad alternarsi e un attacco strepitoso con Totti, Batistuta e Delvecchio. Più due jolly che risulteranno decisivi come Montella e Nakata. È un trionfo, la Roma giallorossa impazzisce e Fabio diventa re.

La storia non porta altri trofei, se si esclude la supercoppa italiana naturale conseguenza dello scudetto, ma un epilogo amaro.  Capello lascia la Roma per la Juventus, la rivale odiata, dopo aver giurato che mai l’avrebbe fatto.

Torino e ritorno a Madrid

I due anni che seguono a Torino, sulla panchina bianconera, sono pieni di successi, record su record. Campioni eccezionali gestiti con il solito carisma. Piccoli problemi con Del Piero, non più titolare fisso, ma Ibrahimovic, appena acquistato, è un ira di Dio che non si può lasciare fuori. Il resto è un dominio assoluto in Italia che però viene macchiato dalla vicenda calciopoli. La Juventus viene retrocessa e gli scudetti revocati. Capello abbandona la nave e fa ritorno a Madrid dove vince ancora un titolo nazionale ma a causa di dissidi con il presidente Calderon viene lo stesso esonerato.

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Sir Fabio Capello

Dopo qualche mese di giusto riposo arriva una proposta inaspettata.  La Football Association lo vuole sulla panchina inglese.  C’è da ricostruire l’immagine dei tre leoni rimasti fuori dagli ultimi europei.  Fabio Capello fa le valige insieme a tutto il suo staff, Galbiati e Tancredi in prima fila. L’impatto iniziale non è semplice, oltre a una nuova lingua bisogna cambiare metodo di lavoro. Non si pensa più giorno per giorno ma a lungo raggio. 

L’inizio è perfetto. 8 vittorie consecutive e qualificazione ai mondiali centrata. Con la sua enorme esperienza di campo e con il suo carisma, riesce a toccare le corde giuste dei giocatori inglesi, arrivando ad accrescere la loro autostima e renderli un gruppo. Ai mondiali viene però eliminato dalla corazzata Germania. Si qualifica facilmente ai successivi Europei ma nel febbraio che precede la rassegna continentale si dimette in modo fragoroso. Il tecnico friulano lascia la nazionale inglese dopo il precipitare della situazione in merito alla vicenda di John Terry, il giocatore del Chelsea cui la FA aveva deciso di togliere la fascia di capitano in seguito alle accuse di insulti razzisti ad Anton Ferdinand durante un match fra i ‘blues’ e il Queen’s Park Rangers. Fabio non accetta ingerenze di nessun tipo e saluta.

L’ultimo Mondiale

C’è un’ultima passerella per il grande condottiero. Gliela offre la Russia che lo nomina c.t. della nazionale. Lui ripaga la fiducia qualificandosi ai mondiali del 2014 che però mestamente finiscono al primo turno. Dopo la rescissione vola in Cina per provare a vedere se ci sono margini nel calcio cinese. La squadra lotta per retrocedere, non fa per lui. Stavolta siamo davvero ai saluti finali. Dopo 37 anni da allenatore dice basta.

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Capello non sarà ricordato per la sua simpatia, per la chiaccherata brillante. Il suo profilo da allenatore resterà scolpito nel suo sguardo duro e nella mascella serrata. Ma soprattutto sarà ricordato per le sue vittorie e per quella sensazione che non ha mai subito appannamenti: l’impressione che con lui alla guida tutto sarebbe stato possibile. Se ad una squadra fosse mancato l’ultimo gradino per salire al cielo rimaneva solo una cosa da fare: alzare il telefono e chiamare Capello.

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