Approfondimenti
NUMERO 14 – Il mondo conosce Maradona
“Quando ha cominciato a capire di essere Maradona?”. La domanda del giornalista è secca, precisa.
La risposta è esaustiva: “A 19 anni ho vinto la Coppa del Mondo Juniores in Giappone, ed in quel momento ho capito che potevo fare di più, con la forza che avevo”.
C’è, dunque, un luogo e una data precisa per la “nascita” del più grande calciatore di ogni epoca.
Giappone, estate 1979.
Un dettaglio importante l’assegnazione al paese asiatico del Mondiale Juniores di calcio. Una location insolita per i prospetti geopolitici dei dirigenti dell’epoca, abituati ad ambientare i propri eventi in luoghi dove fossero sicuri di poter contare sul supporto entusiastico della popolazione locale, tutti concentrati tra l’Europa e il Sudamerica.
Eppure Joao Havelange, allora Presidente della FIFA, a caccia di nuovi territori da convertire alla religione laica del calcio, assegna al paese del Sol Levante il secondo Mondiale Juniores con il chiaro obiettivo di indottrinare i nipponici, più interessati a discipline come baseball, lotta libera o sumo, al gioco del pallone.
Un torneo tra le migliori nazionali giovanili, piene di futuri assi del calcio, smaniosi di sfondare e disposti a stupire la platea con colpi ad effetto, sembra davvero la formula ideale per incuriosire ed appassionare il pubblico giapponese. Con tutti i benefici di immagine e i ritorni economici che si possono immaginare.
Una delle nazionali favorite per la vittoria del Mondiale Juniores è quella argentina.
La Seleccion dei grandi è campione del mondo in carica e, per l’occasione, ha prestato il suo tecnico, Cesar Luis Menotti alla Juniores. La sua sapienza tattica dovrebbe essere garanzia di successo. Ma il vero asso nella manica dell’albiceleste è lui, la più grande promessa del calcio mondiale, Diego Armando Maradona.
E’ un predestinato, basta vedere il curriculum: debutto in prima divisione argentina a meno di 16 anni, esordio in nazionale l’anno successivo, capocannoniere del campionato a 18 anni.
Non manca nulla nella sua giovane carriera, neanche la prima, cocente delusione. Che poi è anche il motivo per cui è arrivato caricato a mille in terra nipponica, con la voglia di spaccare il mondo.
Menotti, dopo averlo inserito nel numero dei papabili per il Mondiale, all’ultimo minuto l’ha escluso dalla lista dei convocati e l’Argentina ha vinto il titolo senza di lui.
Maradona ha pianto di rabbia, ha inveito contro il Destino infame, ha persino meditato di abbandonare per sempre il mondo del calcio.
Voci di corridoio dicono che non sia stato estraneo alla decisione di Menotti di lasciarlo a casa il parere del capitano della Seleccion, Daniel Passarella.
Quest’ultimo ha un concetto molto personale del modo di gestire il gruppo: il leader indiscusso della nazionale è lui e tutti gli altri sono dei gregari che devono uniformarsi alle sue regole, dentro e fuori dal campo di gioco.
Ovvio che a un tipo cosi, più dittatore che capo, quel ragazzino tutto riccioli che sembra divertirsi ad umiliare a forza di dribbling e finte ogni avversario che gli si para davanti e che non abbassa lo sguardo di fronte a nessuno, stia decisamente sullo stomaco.
E, a quanto pare, ha convinto Menotti che l’Argentina può fare a meno dell’ancora acerbo talento di Diego.
Conclusione della storia: Passarella ha alzato al cielo la Coppa del Mondo e Maradona è rimasto a casa, davanti alla televisione, a rodersi il fegato.
Non sarà mai più campione del mondo a 18 anni come Pelè, suo punto di riferimento indiscusso.
Ma il tempo è un galantuomo e offre sempre una opportunità di rivincita: a distanza di un anno è li, in Giappone, con la fascia di capitano al braccio, simbolo di leadership assoluta, e con la vittoria finale, il suo riscatto personale, come unico pensiero in testa.
E’ arrivato il momento che il mondo conosca Maradona.
La squadra argentina è costruita in maniera da esaltare l’immenso talento del suo capitano: una difesa arcigna con quattro elementi fissi dietro, due mediani centrali incaricati di guardare le spalle a Maradona, due esterni sulle fasce per sfruttare con dei tagli improvvisi le sue aperture di gioco geniali e davanti a lui un centravanti di manovra, Ramon Diaz, abile tecnicamente quanto basta per capitalizzare in gol i numerosi assist di Diego.
Quest’ultimo è libero di muoversi a tutto campo, di ricevere palla per iniziare l’azione e, spesso, anche per concluderla.
E’ sia l’alfa che l’omega del gioco della sua nazionale. Tutto inizia e finisce con lui.
La prima partita è poco più di una formalità: la derelitta Indonesia, cenerentola del girone, deve solo fare da sparring partner agli scatenati argentini che infilano cinque palloni nella sua porta. Due gol portano la firma di Maradona, gli altri tre sono di Ramon Diaz, sua perfetta spalla.
Tra i vari spettatori che assistono alle magie sul campo del numero 10 argentino c’è anche un giovane mangaka (autore di fumetti), Yoichi Takahashi.
Il ventenne fumettista è ammaliato dal modo di giocare di Maradona e su di lui modella il protagonista di una storia che gli ronza nella testa. Numero 10 sulle spalle, estro da fantasista a tutto campo e uno sconfinato amore per il calcio.
Il risultato dell’entusiasmo di Takahashi di fronte alle giocate funamboliche di Maradona è un manga intitolato Captain Tsubasa. In seguito, nella sua versione animata, da noi conosciuta come “Holly e Benji”, farà innamorare del pallone migliaia di ragazzini in tutto il mondo.
Il torneo va avanti: dopo aver regolato per 1 a 0 la Jugoslavia, l’avversario più insidioso del girone, la seleccion ha sconfitto per 4 a 1 la Polonia e si prepara ad affrontare i quarti di finale.
Nella partita contro l’Algeria ancora Maradona e compagni danno spettacolo: 5 a 0 il risultato finale e Argentina diretta alle semifinali dove incontra una delle sue rivali storiche, l’Uruguay.
Match duro, combattuto ma alla fine la coppia di dioscuri Maradona-Diaz ha la meglio, 2 a 0 con un gol a testa e squadra in finale.
L’avversario è l’Unione Sovietica, campione del mondo giovanile in carica.
L’allenatore dei sovietici ha ben studiato gli argentini e ha capito che il sistema più sicuro per vincere la finale è limitare (non bloccare, sarebbe impossibile) l’estro di Maradona.
Cosi, esattamente come farà l’allenatore dei tedeschi, Franz Beckenbauer, nella finale del Mondiale a Città del Messico sette anni dopo, incarica un suo giocatore di seguire come un’ombra Maradona sul terreno di gioco.
L’imperativo categorico è impedirgli di fare il suo gioco.
Il soldatino deputato a tale compito, il ruvido difensore Radenko, esegue con stoicismo il suo compito e la tattica sembra funzionare a meraviglia: Diego non tocca molti palloni e L’URSS va in vantaggio.
Ma non c’è modo di frenare la voglia di vittoria di Maradona. Tira fuori la sua classe, entusiasma il pubblico con i suoi virtuosismi e alla fine è 3 a 1 per la squadra albiceleste.
Argentina campeon del mundo. Il suo capitano, migliore giocatore del torneo, può sollevare al cielo la versione in piccolo della Coppa che gli era stata negata in madrepatria.
Alla fine il mondo ha conosciuto Maradona.
(Foto: DepositPhotos)