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La parola agli arbitri, ma siamo pronti ad ascoltarli?
Alfredo Trantalange, nuovo presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, ha cominciato col piede giusto: ha mandato Daniele Orsato in televisione a parlare del ruolo dei “fischietti” e a rendere conto di un suo errore che tre anni fa scatenò polemiche infinite. L’elettricista di Schio ha tranquillamente ammesso di avere sbagliato a non espellere Pjanic per un fallo su Rafinha durante Inter-Juventus. Ce n’eravamo accorti tutti. Ma Orsato ha spiegato perché sbagliò in quell’occasione: era troppo vicino e non riuscì a valutare correttamente l’episodio sul quale il VAR non poté intervenire.
Naturalmente questa onesta ammissione ha scatenato una valanga di polemiche, perché quella mancata espulsione fu probabilmente decisiva nella conquista dello scudetto da parte della Juve a danno del Napoli.
Ed ecco che nascono degli interrogativi: è giusto che gli arbitri spieghino le loro decisioni, è giusto che si aprano verso il mondo esterno? La risposta a questa domanda non può che essere affermativa, ma ci viene un dubbio: siamo sicuri di essere pronti per questa svolta epocale?
Gli arbitri sono sempre stati visti come un’entità fondamentale per il calcio, perché senza di loro non si potrebbero disputare i campionati, ma anche come una sorta di casta inavvicinabile. Durante la mia carriera ho avuto la fortuna di conoscere molti direttori di gara. Con tutti ho avuto rapporti di grande rispetto reciproco e di correttezza. Di qualcuno sono diventato amico. Tutti mi hanno aiutato a fare meglio la mia professione. Marcello Nicchi, l’ex presidente dell’AIA, proibiva che gli arbitri parlassero con i giornalisti, ma naturalmente non era così.
Quando avevo un dubbio sul regolamento o sull’interpretazione di un certo episodio, alzavo il telefono e chiamavo Giuseppe Rosica (scomparso due anni fa per SLA), Gabriele Gava, Maurizio Ciampi, Pasquale Rodomonti, Daniele Orsato e loro con grande disponibilità mi spiegavano tutto. Ricordo che una domenica ero di turno al TG5 e dovevo preparare un servizio sulla giornata di campionato partendo da Lazio-Juventus, che si era giocata il sabato. C’era stato un episodio controverso, un mancato calcio di rigore. Chiamai Orsato, che aveva diretto la partita, e lui mi spiegò perché non lo aveva concesso. Lo scrissi nel servizio, naturalmente senza citare la fonte.
Un’altra volta Rodomonti diresse un Milan-Inter in cui ci furono molte proteste su un calcio di punizione battuto velocemente dai nerazzurri che portò al gol del pareggio. Ero a Milano e Sandro Piccinini, poco prima di andare in onda a Controcampo, conoscendo la mia amicizia con Pasquale, mi chiese se potessi sentirlo. Lo chiamai una ventina di minuti dopo la fine della partita, Rodomonti mi rispose dallo spogliatoio di San Siro e mi chiarì l’episodio. In una pausa pubblicitaria lo spiegai a Piccinini, che al rientro in studio fornì l’interpretazione autentica, naturalmente senza dire come aveva avuto quell’informazione.
Ho raccontato questi episodi per far capire che gli arbitri hanno tutto l’interesse a spiegare il motivo di certe decisioni e la stragrande maggioranza di loro è sempre stata favorevole ai rapporti col mondo esterno, perché rimanere chiusi in una campana di vetro non ha nessun senso. Tanto meno nel 2021 e nell’era dei social network.
Però siamo noi telespettatori, tifosi, addetti ai lavori che dobbiamo fare un passo avanti. Anche se dubito che siamo preparati a farlo.
Mi spiego. L’arbitro è una figura in qualche modo sopportata nel mondo del calcio. Solo perché, come ho spiegato prima, è un elemento necessario per disputare le partite, dai campionati giovanili, ai dilettanti, fino alla serie A. Ma basta recarsi in un qualunque campo di periferia per capire quanto l’arbitro sia maltrattato. Quando va bene lo insultano per gli errori che inevitabilmente commette, quando va male gli mettono le mani addosso: spesso i giocatori, talvolta i dirigenti o addirittura gli spettatori.
L’arbitro non è odiato per gli errori che commette, ma perché rappresenta l’alibi più comodo per spiegare gli errori di giocatori, allenatori e dirigenti. L’arbitro sbaglia perché è un essere umano, perché i giocatori spesso fanno di tutto per ingannarlo, perché gli mettono continuamente pressione.
Ho fatto per tre anni l’addetto all’arbitro di una società di Eccellenza e ho sempre avuto con i direttori di gara un rapporto di grande correttezza. Del resto molti di loro mi conoscevano come giornalista di Mediaset e spesso alla fine, quando andavo a dargli la mano, mi chiedevano un giudizio sul loro operato. Ricordo che una delle prime volte che misi piede nello spogliatoio rimasi stupito dalla pianificazione del comportamento da tenere nei confronti del direttore di gara: il capitano, di solito il giocatore più esperto, spiegava i tempi e i modi delle proteste per indurre l’arbitro a prendere decisioni più favorevoli alla nostra squadra. Per me era un mondo sconosciuto, perché avevo giocato molti anni prima in terza categoria e non conoscevo queste modalità.
L’arbitro sbaglia, dicevamo. Sbaglia perché valuta male un episodio, perché è troppo lontano, perché è troppo vicino, perché i giocatori simulano, perché i giocatori gli impediscono di vedere il pallone, perché è in giornata no. Esattamente come un centravanti sbaglia un gol a porta vuota, un portiere sbaglia una parata, un difensore sbaglia un intervento, un centrocampista sbaglia un passaggio di tre metri. Oppure come sbaglia ognuno di noi nella nostra professione. Pensate, sbagliano persino i giornalisti: un titolo, un nome, una pronuncia, una data, un congiuntivo (!).
Eppure nessuno si scandalizza come quando sbaglia un arbitro. Perché all’arbitro non è concesso di sbagliare, perché subito ci si chiede cosa o chi ci sia dietro quell’errore.
In tanti anni che ho seguito il calcio non mi ha mai neppure sfiorato l’idea che un arbitro sbagliasse apposta. E perché poi, per essere massacrato da moviole e moviolisti? Quando un attaccante sbaglia un gol fatto, nessuno pensa che lo faccia perché ha scommesso contro la propria squadra. Quando sbaglia un arbitro si sospetta che abbia voluto favorire la Juventus, oppure l’Inter, oppure il Milan, oppure la Roma, oppure la Lazio, oppure il Napoli.
Perché ragioniamo così? Perché abbiamo poca cultura sportiva, perché siamo tifosi (quanti giornalisti lo sono, ahimè!), perché è più comodo attaccare il direttore di gara, perché fa notizia, perché fa vendere, perché fa ascolto.
E allora torniamo alla domanda iniziale: siamo proprio sicuri di essere pronti a dare la parola agli arbitri, evitando di dargli addosso a ogni minimo errore? A voi la risposta.