Approfondimenti
NUMERO 14 – Operazione Julián Grimeau
Caracas, 24 Agosto 1963.
Afa soffocante tipica dell’estate sudamericana. Una sera come tante, pochi turisti che si attardano con accanto un bicchiere di daiquiri per combattere il caldo opprimente.
E quella coppia di agenti che si ferma proprio davanti all’Hotel Potomac.
Entrano. E si dirigono a passo spedito verso la 219.
Sono stati preceduti da una telefonata diretta all’occupante di quella stanza.
Che si presenta ad aprire di fronte al bussare insistente dei due.
Non sembrano i soliti, noiosi cacciatori di autografi ma il buonsenso gli suggerisce di mostrarsi conciliante con chi indossa una divisa.
E, soprattutto, gli ha aperto sotto il naso un blocco di pelle pieno di documenti con il timbro della Polizia di Stato.
Quindi, sia pur visibilmente infastidito dall’inattesa visita, ha la lucidità di domandare in cosa possa essere utile.
“Il Signor Alfredo Di Stefano, professione calciatore?”
“Sono io, ma non capisco cosa stia succedendo.”
“Lei deve seguirci in caserma. Vogliamo andare, por favor?”
“Ma che state dicendo?! Cosa dovrei fare?!”
Ora i due militari portano le mani alle fondine delle pistole.
“Non ci costringa ad usare le maniere forti. Sono dei semplici accertamenti ma è necessario che lei ci segua in caserma.”
“Ma ditemi almeno di cosa si tratta!!”
“Il suo nome è venuto fuori in un caso di droga di cui ci stiamo occupando. Ora si prepari e ci segua.”
Di Stefano prende la giacca e pochi effetti personali e li segue, rassegnato.
Non appena fuori i due lo accompagnano ad una macchina e lo fanno salire.
Si allontanano e si rivelano per quello che sono realmente.
Le divise, i documenti, l’intera storia è un falso.
Fanno parte del movimento rivoluzionario delle FALN (Forze Armate di Liberazione Nazionale) e lui adesso è un loro ostaggio. Il suo rapimento è una azione dimostrativa di protesta contro il regime filoamericano del loro attuale presidente.
Il nome in codice dell’azione di sequestro è “Operazione Julián Grimeau” in omaggio a un attivista spagnolo fucilato dai militari agli ordini del regime dittatoriale di Francisco Franco appena pochi mesi prima.
Di Stefano, nella sua qualità di celebre calciatore militante nel Real Madrid, squadra cara al dittatore spagnolo, è l’obiettivo ideale del movimento venezuelano.
Famoso e pure vicino ai poteri forti. Un sequestro che darà fastidio a molte persone.
Infatti i suoi rapitori non pensano neanche lontanamente a chiedere un riscatto.
Non gli serve il denaro. Per mettere in atto il meccanismo che hanno in mente hanno bisogno di qualcosa che faccia molto rumore.
Niente di meglio che fare quello che hanno appena fatto.
Non ci credono neanche loro che sia stato cosi facile.
Di Stefano tace e riflette. In silenzio.
Sarebbe stato meglio che fossero stati davvero della polizia: un po’ di tempo perso in caserma per rispondere alle domande di qualche funzionario con sogni di carriera in testa e poi sorrisi, scuse, qualche autografo e via, di nuovo al suo albergo.
Questi sono solo ragazzini che giocano a fare i guerriglieri.
Hanno avuto molta fortuna nel portare a termine l’azione ma non è detto che sia sempre cosi.
Non sa per quanto tempo vogliano tenerlo sotto sequestro. Forse pochi giorni, forse settimane o addirittura mesi.
Sempre che vada tutto bene.
Chi sembra avere il comando del gruppo gli ha garantito che non gli faranno niente.
Hanno tutto l’interesse a conservarlo in perfetta salute.
A patto che non commetta qualche sciocchezza, si intende.
La notte stessa viene diramato il comunicato: molte persone in Venezuela vengono tirate giù dal letto anche se, in molti casi, basta fare il nome del sequestrato e dimenticano in un istante il sonno e la stanchezza.
Ma proprio qui e adesso doveva capitare una cosa del genere?
Per quanto possa sembrare strano, in una situazione del genere, il più tranquillo di tutti è proprio l’uomo che è stato rapito.
Don Alfredo Di Stefano non è un uomo di poco conto. E non ha paura.
Il suo passato non glielo consentirebbe in nessun caso.
Non viene da una famiglia agiata, i suoi erano poveri immigrati di origine italiana sbarcati in Argentina per sfuggire alla miseria, è cresciuto per i vicoli di Buenos Aires inseguendo forsennatamente un pallone sperando che quella sfera fosse il suo lasciapassare per una esistenza migliore.
Una storia come tante altre, fatta di coraggio e determinazione.
Ma quanti giovani aspiranti calciatori possono dire di essere cresciuti accanto ai campioni del River Plate degli anni ’40, una squadra che, per la sublime perfezione dei suoi meccanismi di gioco, era soprannominata la “Maquina”?
Chi di loro può dire di aver appreso la filosofia di gioco dall’immenso Carlos Peucelle per il quale “il football si gioca sempre con la palla a terra e sempre di prima?”.
E, soprattutto, chi di loro può dire di essere stato l’erede del grande centravanti di quella squadra, Adolfo Pedernera?
I fatti parlano chiaro: arrivato alla soglia dei trent’anni e alla fine del contratto con la squadra, “El Maestro” Pedernera si era attenuto ad una delle più antiche e nobili tradizioni del suo club, scegliere personalmente il suo successore.
E non aveva avuto il minimo dubbio: aveva indicato il ventenne Alfredo Di Stefano per prendere il suo posto al centro dell’attacco del River Plate.
Mai scelta fu più felice: l’investitura a centravanti titolare era stata legittimata dal titolo di capocannoniere del campionato, con 27 reti messe a segno.
Da allora e per sempre quel ragazzo con i capelli chiari e dotato di una velocità fulminante sarà per i tifosi del River “Saeta Rubia”, la freccia bionda.
Ma, dopo appena un paio di stagioni come indiscusso idolo dello stadio Monumental, Di Stefano, sedotto da un mucchio di pesetas d’ingaggio, aveva firmato per i Millionarios di Bogotà, trasferendosi cosi in Colombia, dove aveva ritrovato il suo vecchio compagno Pedernera, anche lui accasatosi da quelle parti per un remunerativo finale di carriera.
Qualche anno più tardi, complice una torneo giocato in Spagna della squadra colombiana e una prestazione magistrale nella partita giocata contro il Real Madrid con una doppietta messa a segno, Di Stefano si ritrova conteso dalla squadra della capitale e dal Barcellona.
I primi si accordano direttamente con il giocatore, i secondi con il River Plate, ancora proprietario formale del suo cartellino in quanto i Millionarios militano in un campionato che non è ufficialmente affiliato alla Fifa.
Ne nasce un caso a cui il mediatore incaricato applica una soluzione salomonica: il giocatore giocherà un anno per il Real e un anno per il Barcellona, in alternanza.
I catalani rinunciano sdegnati alle sue prestazioni e Di Stefano passa in via definitiva al Real Madrid, diventandone un simbolo a suon di gol e vittorie.
Un simbolo talmente forte da giustificare perfino quel clamoroso sequestro.
Don Alfredo si è abituato in fretta alla prigionia: il vitto e l’alloggio non sono da disprezzare e, per ammazzare il tempo, c’è sempre la scacchiera per una sfida con uno dei suoi sorveglianti.
Quando il Real scende in campo per la prima partita del torneo chiede di poterla seguire per radio. Impassibile all’annuncio del suo rapimento da parte dello speaker si rammarica quasi che i suoi compagni abbiano vinto senza di lui.
Quell’annuncio vuol dire che la sua prigionia è finita. I suoi rapitori hanno ottenuto il clamore mediatico che cercavano per dare rilevanza alla loro lotta rivoluzionaria.
La sera successiva viene rilasciato nelle vicinanze dell’ambasciata spagnola.
Nel corso della conferenza stampa non ha altro da dire che è stato trattato con tutti i riguardi, i suoi sequestratori si sono comportati come degli autentici caballeros e che ora pensa solo a tornare in campo per chiudere il torneo.
A suo fianco c’è Alfonso Bernabeu, presidente e padre-padrone del club madrileno.
Rassicura tutti sul perfetto stato di salute del giocatore e garantisce sulla sua presenza in campo per la chiusura del torneo.
Ovviamente giura che non è stato pagato alcun riscatto.
Il giorno dopo, passate 48 ore dalla più singolare vicenda della sua vita, Alfredo Di Stefano gioca regolarmente l’ultima sfida in programma contro il San Paolo.
Probabilmente non si è mai sbarazzato del gagliardetto regalatogli dai suoi sequestratori al momento del rilascio.
Per non dimenticare quei due incredibili giorni?
Per esorcizzarne la memoria?
Di sicuro, nel guardarlo, non può trattenere un sorriso dolceamaro.