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NUMERO 14 – Dalla cronaca alla leggenda

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“Ero centravanti, segnavo molto. Segnai anche quella volta: o meglio, fui certo di aver segnato, perché battei in rete a colpo sicuro. Alzai le braccia al cielo, le abbassai, me le misi nei capelli. Sulla linea di porta era sorto, materializzandosi dal nulla, Valentino Mazzola, aveva fermato il mio tiro, aveva stoppato il pallone. Tornai verso il centro del campo con la testa china, ero deluso, quasi disperato. Avevo fatto pochi passi, ricordo, avevo appena superato il limite dall’area di rigore  granata quando alzai gli occhi, come avvertito da un boato progressivo che invadeva il campo. Mazzola  si era già materializzato là, vicino alla mia porta, e segnava!”.

L’aneddoto di Giampiero Boniperti, allora giocatore della Juventus e, in seguito e per molti anni, presidente della società bianconera identifica alla perfezione le caratteristiche di quello che viene considerato il miglior giocatore mai espresso dal nostro calcio, capitano e bandiera di quella squadra che, a buon diritto, viene ricordata da tutti come il “Grande Torino”.

C’è tutto Valentino Mazzola in questa azione appena descritta dal suo ammirato rivale: il tempismo con cui salva un gol fatto deviando la palla con il tacco, la ripartenza fulminea con cui ribalta l’azione, scambiandosi in velocità il pallone con il partner Loik, e la freddezza da centravanti di razza nel realizzare la rete del vantaggio.

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E se l’autentica natura di un uomo può essere svelata dal suo modo di stare in campo allora la storia di questo giocatore è assolutamente in linea con il suo modo di concepire il  gioco del calcio.

Lottare sempre, su ogni pallone perché non si sa se capiterà un’altra opportunità e non ci si può permettere di sprecare nulla, ma proprio nulla.

E’ la filosofia di chi non ha mai avuto niente, di chi non ha mai potuto scegliere.

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Era nato povero, Valentino Mazzola, talmente povero che, pur di sfuggire alla miseria atavica della sua famiglia, si era arruolato volontario in Marina, sperando di avere finalmente vitto ed alloggio assicurati e non essere costretto a rubare per sopravvivere come suo fratello maggiore, ospite abituale delle patrie galere per vari tipi di reato, tra i quali il più frequente era il furto.

In precedenza aveva accettato un ingaggio dalla Squadra dell’Alfa Romeo in Serie C solo perché l’accordo prevedeva anche un lavoro fisso da meccanico ma, mentre prestava il servizio militare a Venezia, era stato aggregato alla squadra del posto dopo aver messo in mostra le sue doti in varie partitelle organizzate su due piedi dagli annoiati marinai tra un imbarco e l’altro.

E in laguna il giovane Valentino aveva fatto in fretta a dimenticare le privazioni patite: titolare fisso, leadership della squadra in connubio con l’altra mezzala Loik e Venezia che raggiunge risultati mai visti prima, come il terzo posto in campionato nella stagione 1941-42 in aggiunta alla Coppa Italia, primo trofeo in assoluto della compagine veneta, conquistata l’anno precedente.

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Ormai è considerato un astro nascente e i grandi club se lo contendono a suon di milioni: la Juventus sembra sul punto di acquistarlo assieme al “gemello” Loik ma Ferruccio Novo, presidente del Torino, non è uno che si lascia crescere l’erba sotto i piedi e, con un fulmineo blitz negli spogliatoi nell’intervallo dell’incontro con il Venezia, conclude il doppio affare surclassando l’offerta dei rivali bianconeri.

Dopo tre anni Mazzola lascia Venezia tra i rimpianti di tutta la città per vivere quella che promette di essere una avventura straordinaria: Novo ha intenzione di costruire una squadra imbattibile, che apra un ciclo e resti nella storia del calcio.

Lui e Loik sono gli ultimi tasselli di un mosaico che il Torino ha assemblato pazientemente nel corso degli ultimi anni: in squadra hanno già calciatori di valore come il centravanti Gabetto e le ali Menti ed Ossola.

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I dioscuri del centrocampo, Mazzola e Loik, hanno, nelle intenzioni del tecnico magiaro Ernest Erbstein, molteplici compiti: dare sostanza al gioco, assicurare copertura alla difesa e massimo sostegno all’attacco senza trascurare di puntare a rete in prima persona quando le circostanze lo permettono.

E’ la nascita di un team da leggenda: il Torino conquista cinque scudetti di fila mettendo in mostra un gioco spettacolare e segnando caterve di reti.

Mazzola è il capitano e leader assoluto della squadra: si muove a tutto campo e le sue eccelse qualità fisiche, abbinate a una tecnica sopraffina, gli consentono di agire con efficacia in qualsiasi posizione: ringhia sul diretto avversario come il più coriaceo dei terzini, contrasta i dirimpettai a centrocampo da consumato mediano, imposta il gioco da raffinato regista e va alla conclusione a rete con l’implacabilità del cannoniere.

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Il suo carisma è persino superiore alle sue qualità tecniche, non appena avverte che la  carica agonistica dei suoi sta diminuendo gli basta un semplice gesto per riaccendere l’animo della squadra: si rimbocca le maniche della maglia e si fa passare il pallone.

E’ il momento di quello che diverrà famoso come “il quarto d’ora granata”: non importa chi ci sia di fronte, non importa se siamo all’inizio o alla fine di una partita, non importa se ci si trova davanti all’adorante pubblico di casa o agli inferociti tifosi avversari in trasferta.

L’unica cosa che conta è quello che avviene sul campo dall’attimo in cui Capitan Valentino si produce nel suo proverbiale gesto: Il Torino si riversa nella metà campo avversaria con una sincronia perfetta che coinvolge tutti gli elementi della squadra e, spronati dall’esempio del loro leader, i giocatori granata diventano un fiume in piena che travolge chiunque si trovi dall’altra parte.

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Scambi di prima, triangolazioni in velocità, verticalizzazioni improvvise: Mazzola e i suoi giocano come se non ci fosse un domani e asfaltano gli avversari, anche quelli che fino a poco prima erano in vantaggio, a suon di reti.

Alla fine il tabellone della partita emette sempre il solito verdetto e, alla conclusione della stagione, il tricolore viene sempre cucito sulla medesima maglia, per cinque anni di seguito.

Ma anche le storie più belle hanno una conclusione e per questa il Destino ne ha in serbo una tragica ed epica allo stesso tempo.

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Ormai la fama del Torino ha superato i confini nazionali e, sempre più spesso, i granata vengono chiamati all’estero per amichevoli di prestigio: l’anno precedente, a fine campionato, hanno disputato una tournée in Brasile con risultati lusinghieri.

Adesso, nel Maggio del 1949, sono stati invitati a Lisbona per la partita d’addio al calcio di Francisco Ferreira, capitano del Benfica e della nazionale portoghese nonché amico personale di Valentino Mazzola.

A conclusione dell’incontro la squadra si imbarca su un aereo per il ritorno a casa.

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Non torneranno mai più: nel pomeriggio del 4 Maggio una manovra errata, condizionata anche dalla nebbia, fa schiantare il veivolo sulla Collina di Superga, causando la morte di tutti i passeggeri.

Il Grande Torino passa direttamente dalla cronaca alla leggenda.

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