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EN PLEIN AIR – Da Velázquez a Redondo: l’invariabilità dell’ombra

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Le stagioni della vita non si prostrano alla solida volatilità dell’Arte, è il caso di dirlo.

Questione di materia, quantificabile in grammi e non solo: corno e crine, esagoni di cuoio e olio canforato. Il campo – giudice sì, ma neanche troppo – è tela in attesa, è complesso di sfumature e geometrie, ombre a cui la setola dà altro significato. Sta all’occhio percepire il movimento, riprodurlo e imporlo all’immobilità della memoria.

Madrid è la pietra angolare del nostro racconto, laddove scorre placido il Manzanarre confluiscono i destini di due artisti confliggenti nella modalità, contigui nell’espressione e nella resa: Diego Velázquez y Fernando Redondo.

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Non è, però, dalla capitale del Regno che si parte, tocca spostarsi verso Ovest. Dapprima a Siviglia, alle falde della Giralda, poi lì – fin quasi alla fine del mondo conosciuto – dove riposa l’Ammiraglio Brown, Buenos Aires.

Gli inizi si nutrono d’umiltà e botteghe (è questa l’era dei bodegones), Velázquez pesca il sacro nel profano, governanti e Divinità, nature morte e perfino gesti rivoluzionari per l’epoca: immortalando il disincanto dei Moriscos. Tutto così tenue – benché si parli di un Maestro del Barocco – eppure tutto così reale. Tanto reale da influenzare il tratto dei realisti, suoi successori designati, e non solo: da Manet a Picasso, da Delacroix a Dalì.

Gesù Cristo nella casa di Marta e Maria di Betania. Diego Velázquez, 1618. Fonte: Wikipedia

Fernando Redondo, invece, incanta con la camiseta de Los Bichos Colorados: l’Argentinos Juniors, per chi non coglie il fascino semantico del Sud America. Fari puntati sull’astro nascente dell’Albiceleste, non è la classica storia di periferia: i genitori, del resto, sono ricchi industriali.

Non di sola polvere e stenti si nutre la classe.

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La rapidità di passo e di pensiero, la visione di gioco e la freddezza di chi dimostra molto più dei suoi vent’anni scarsi, comunque, conducono Redondo a stravolgere la rotta dei Conquistadores: risale la corrente dell’Atlantico e si infrange sulle scogliere delle Canarie. E’ il Tenerife, infatti, a rappresentare l’alba europea del Principe.

Chioma al vento e maglia numero cinque. Brulla ed arsa dal sole la superficie dello Stadio Heliodoro Rodrìguez Lòpez, siamo in Europa ma – atlante alla mano – neanche tanto. Fernando non lo sa – o almeno non se ne cura – e dipinge traiettorie di rara eleganza, degne d’un tavolo da biliardo.

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Sono, però, i mecenati a render lustro alla Storia. Chi scopre il talento anima la mensa delle istituzioni. Altre due anime, pertanto, si intersecano al nostro percorso: Don Juan de Fonseca e Jorge Valdano.

Il primo, cappellano di Filippo IV, funse – alla morte di Rodrigo de Villandrando, pittore di corte – da mediatore fra Velázquez e Sua Maestà. Il secondo – vessillo d’Argentina in terra castigliana, spedito a farsi le ossa, dal punto di vista manageriale, in Gran Canaria – accolse Fernando Redondo nel cuore nobile e Real del Vecchio Continente.

«Muchas veces demonizamos el dinero en el fútbol»

Jorge Valdano con la camiseta Albiceleste, foto tratta da Wikiquote

Cambiano gli scenari ma il linguaggio no, resta quello di sempre: teso al reale e mai all’esaltazione.

Principia, in quel determinato contesto, l’età dei grandi ritratti, Velázquez è l’artista di punta della sfarzosa corte spagnola. Celebri i ritratti, altrettanto celebre il tratto sicuro e senza alcuno studio propedeutico alla preparazione.

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La critica, al solito severa, lo tacciò di grossolanità. La risposta dell’artista fu semplice e geniale:

“Meglio essere il primo fra i grossolani che il secondo fra i delicati”.

Più volte si sospinse verso la penisola italiana, sulla rotta di Raffaello e Caravaggio. Monumentale il ritratto di Papa Innocenzo X, poco gradito al Pontefice per via di quella tendenza all’umanizzazione che poco o nulla ebbe in comune con lo strapotere di Sancta Mater Ecclesia.

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Retrato del Papa Inocencio X. Roma, by Diego Velázquez.jpg

Ritratto di Innocenzo X. Diego Velázquez, 1650. Fonte: Wikipedia.

Alla corte delle Merengues – una stampa e una figura con il dirimpettaio, coniugato al passato remoto, munito d’oli e tavolozze – anche Fernando divenne uomo e, radicalmente, mutò l’espressione. Non il linguaggio.

Furono anni densi di successi, interpretando un ruolo – quello del regista, appunto – che di lì a poco avrebbe cambiato tono e colore. Più compassata che agile la svolta istituzionale, non meno elegante. Fiero compositore della linea mediana di quella Invincibile Armada che, asserragliate le roccaforti d’Europa, vinse tutto e il contrario di tutto.

Solo l’affermazione in nazionale, tuttavia, restò una cocente incompiuta.

Lo scontro Redondo Simeone durante Inter-Real Madrid valevole per la fase a gironi della UEFA Champions League 1998-1999. Fonte foto: Wikipedia

Anomalie del linguaggio artistico impreziosiscono il finale, ché l’ombra è sorella meno considerata della luce, benché imprescindibili l’una dall’altra.

Tumultuoso l’addio dai Galácticos, sfortunata la parentesi rossonera: nobile l’epilogo quando, dopo la rottura del crociato in fase di romitaggio estivo, decise di autosospendersi lo stipendio fino alla prima convocazione.

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Fernando Redondo con la maglia del Milan affronta i suoi ex compagni del Real. Fonte Foto: TasnimNews.com

Ché l’ombra, dicevamo poc’anzi, è componente fondamentale del cammino. La dolce compagna di ogni tramonto, per quanto si voglia sfuggirle, resta articolata al sentiero: fra i talloni e l’erba appena tagliata.

 

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