Approfondimenti
EN PLEIN AIR – Da Velázquez a Redondo: l’invariabilità dell’ombra
Le stagioni della vita non si prostrano alla solida volatilità dell’Arte, è il caso di dirlo.
Questione di materia, quantificabile in grammi e non solo: corno e crine, esagoni di cuoio e olio canforato. Il campo – giudice sì, ma neanche troppo – è tela in attesa, è complesso di sfumature e geometrie, ombre a cui la setola dà altro significato. Sta all’occhio percepire il movimento, riprodurlo e imporlo all’immobilità della memoria.
Madrid è la pietra angolare del nostro racconto, laddove scorre placido il Manzanarre confluiscono i destini di due artisti confliggenti nella modalità, contigui nell’espressione e nella resa: Diego Velázquez y Fernando Redondo.
Non è, però, dalla capitale del Regno che si parte, tocca spostarsi verso Ovest. Dapprima a Siviglia, alle falde della Giralda, poi lì – fin quasi alla fine del mondo conosciuto – dove riposa l’Ammiraglio Brown, Buenos Aires.
Gli inizi si nutrono d’umiltà e botteghe (è questa l’era dei bodegones), Velázquez pesca il sacro nel profano, governanti e Divinità, nature morte e perfino gesti rivoluzionari per l’epoca: immortalando il disincanto dei Moriscos. Tutto così tenue – benché si parli di un Maestro del Barocco – eppure tutto così reale. Tanto reale da influenzare il tratto dei realisti, suoi successori designati, e non solo: da Manet a Picasso, da Delacroix a Dalì.
Fernando Redondo, invece, incanta con la camiseta de Los Bichos Colorados: l’Argentinos Juniors, per chi non coglie il fascino semantico del Sud America. Fari puntati sull’astro nascente dell’Albiceleste, non è la classica storia di periferia: i genitori, del resto, sono ricchi industriali.
Non di sola polvere e stenti si nutre la classe.
La rapidità di passo e di pensiero, la visione di gioco e la freddezza di chi dimostra molto più dei suoi vent’anni scarsi, comunque, conducono Redondo a stravolgere la rotta dei Conquistadores: risale la corrente dell’Atlantico e si infrange sulle scogliere delle Canarie. E’ il Tenerife, infatti, a rappresentare l’alba europea del Principe.
Chioma al vento e maglia numero cinque. Brulla ed arsa dal sole la superficie dello Stadio Heliodoro Rodrìguez Lòpez, siamo in Europa ma – atlante alla mano – neanche tanto. Fernando non lo sa – o almeno non se ne cura – e dipinge traiettorie di rara eleganza, degne d’un tavolo da biliardo.
Sono, però, i mecenati a render lustro alla Storia. Chi scopre il talento anima la mensa delle istituzioni. Altre due anime, pertanto, si intersecano al nostro percorso: Don Juan de Fonseca e Jorge Valdano.
Il primo, cappellano di Filippo IV, funse – alla morte di Rodrigo de Villandrando, pittore di corte – da mediatore fra Velázquez e Sua Maestà. Il secondo – vessillo d’Argentina in terra castigliana, spedito a farsi le ossa, dal punto di vista manageriale, in Gran Canaria – accolse Fernando Redondo nel cuore nobile e Real del Vecchio Continente.
Cambiano gli scenari ma il linguaggio no, resta quello di sempre: teso al reale e mai all’esaltazione.
Principia, in quel determinato contesto, l’età dei grandi ritratti, Velázquez è l’artista di punta della sfarzosa corte spagnola. Celebri i ritratti, altrettanto celebre il tratto sicuro e senza alcuno studio propedeutico alla preparazione.
La critica, al solito severa, lo tacciò di grossolanità. La risposta dell’artista fu semplice e geniale:
“Meglio essere il primo fra i grossolani che il secondo fra i delicati”.
Più volte si sospinse verso la penisola italiana, sulla rotta di Raffaello e Caravaggio. Monumentale il ritratto di Papa Innocenzo X, poco gradito al Pontefice per via di quella tendenza all’umanizzazione che poco o nulla ebbe in comune con lo strapotere di Sancta Mater Ecclesia.
Alla corte delle Merengues – una stampa e una figura con il dirimpettaio, coniugato al passato remoto, munito d’oli e tavolozze – anche Fernando divenne uomo e, radicalmente, mutò l’espressione. Non il linguaggio.
Furono anni densi di successi, interpretando un ruolo – quello del regista, appunto – che di lì a poco avrebbe cambiato tono e colore. Più compassata che agile la svolta istituzionale, non meno elegante. Fiero compositore della linea mediana di quella Invincibile Armada che, asserragliate le roccaforti d’Europa, vinse tutto e il contrario di tutto.
Solo l’affermazione in nazionale, tuttavia, restò una cocente incompiuta.
Anomalie del linguaggio artistico impreziosiscono il finale, ché l’ombra è sorella meno considerata della luce, benché imprescindibili l’una dall’altra.
Tumultuoso l’addio dai Galácticos, sfortunata la parentesi rossonera: nobile l’epilogo quando, dopo la rottura del crociato in fase di romitaggio estivo, decise di autosospendersi lo stipendio fino alla prima convocazione.
Ché l’ombra, dicevamo poc’anzi, è componente fondamentale del cammino. La dolce compagna di ogni tramonto, per quanto si voglia sfuggirle, resta articolata al sentiero: fra i talloni e l’erba appena tagliata.
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