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SILENT CHECK – Serie A, comanda la Legione Straniera

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Tempo di lettura: 5 minuti

Con espressione talvolta persino abusata, illustri commentatori ed opinionisti del pallone sono soliti – da un po’ di anni ed ormai in maniera esponenzialmente crescente – censurare la scelta delle società italiane di calcio di ricorrere ad un numero “importante” di stranieri (attualmente stabilmente collocato intorno al 62%), con ciò mortificando i talenti nostrani e senza peraltro neppure rendere onore al tricolore che tanto è andato di moda nell’estate che volge al termine.

Noti, dunque, enunciato e dimostrazione, vien subito fuori il solito teorema, arricchito – non di rado – di assiomi e postulati.

La serie A, secondo i più, è campionato “italiano” solo sulla carta, stante la presenza (che, per taluni club, significa assoluta preponderanza) di calciatori provenienti soprattutto da Brasile ed Argentina, ma anche da Francia e Spagna, oltre che (in percentuali minori) da altre Nazioni d’Europa e del Mondo.

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L’analisi – così come proposta – è in realtà fin troppo semplice, col rischio di far la fine, parafrasando William Shakespeare, di colui che “vivendo nel guscio di una noce, si sente re dello spazio infinito”.

In un mondo dove chi non ha la mente aperta, generalmente non obbedisce al consiglio di tenere la bocca chiusa, capita dunque che si impacchetti un concetto e ci si rifugi in un sillogismo ovvio e banale.

Premessa maggiore: il campionato italiano ha circa il 60% di calciatori stranieri.

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Premessa minore: in Italia non sbocciano giovani talenti.

Conclusione: la massiccia presenza di calciatori stranieri impedisce o limita l’esplosione di talenti italiani.

Lo ha scritto, in ogni caso, Galileo Galilei (non uno qualunque) circa 400 anni fa: “Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere”.

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Dunque bisogna ossigenare il cervello, allontanare il campo visivo ed osservare quel che accade vicino, nei pressi ed altrove.

In Premier League, per esempio, dove la percentuale di stranieri è addirittura più alta di un punto (siamo quasi al 63%), ma brillano e si evidenziano i talenti (tra gli altri) di Alexander-Arnold, Mason Mount, Greenwood, Rashford  e Phil Foden.

O nella Bundesliga, dove si è poco al di sotto (circa il 58%), con presenze importanti come Kai Havertz, Joshua Kimmich e, soprattutto, Youssoufa Moukoko (ancora 17enne).

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Perfino nella bistrattata Ligue 1 (dove (chissà fino a quando) milita Kylian Mbappé) i giocatori stranieri sono più (il 52%) di quelli con passaporto francese.

Fa eccezione (da sempre) la Liga spagnola, dove i calciatori iberici sono più del 60% (col numero di stranieri comunque in crescita) ed esistono casi “unici” come quelli dell’Athletic Bilbao (composto solo da calciatori baschi).

La massiccia presenza di calciatori stranieri nelle rose delle società iscritte ai maggiori campionati europei di calcio, dunque, è fenomeno certamente esistente, ma non pare rispondere alla regola del nemo propheta in patria se si considera che, mutatis mutandis, il Brasile ha il campionato nazionale con più giocatori autoctoni (circa il 90%) ed è lo Stato che maggiormente esporta talenti (oltre 1.000 nei diversi campionati europei), capitanati al momento da gente come Neymar, Coutinho, Cunha, Firmino o Gabriel Jesus, per tacer d’altri.

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Cercare il filo rosso d’una riflessione interessante e prospettica, dunque, significa scavare più a fondo, scomodando certamente un tema legato ai differenti ingaggi da garantire ad un giovane calciatore italiano rispetto ad un pari età straniero (sempre più difficile da scoprire prima degli altri), ma anche una valutazione più completa ed approfondita.

Il calcio è gioco globale per eccellenza, praticato, visto e diffuso in ogni parte del mondo più di quanto accada per ogni altro sport. L’internazionalizzazione di certi processi è divenuta negli anni via via irreversibile con la migrazione dei calciatori che è ormai una realtà consolidata.

Se importare alcuni giocatori (o allenatori) dall’estero può essere utile per nazioni che mirano a sviluppare il loro livello di calcio (si pensi, esemplificativamente, a quel che è avvenuto negli USA, in Cina, Giappone o negli Emirati Arabi), la vera sfida risiede nella capacità di migliorare il livello di formazione impartito ai talenti del posto.

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Per raggiungere questo obiettivo, è necessario creare una strategia a lungo termine e non è sufficiente che a ragionarci sia solo la Lega di Serie A o la Federazione Italiana Gioco Calcio.

Specie in una realtà dove, per ovvi motivi legati al mantenimento di appeal e competitività, nel 2019 si è approvato il “Decreto Crescita” con abbattimento del 70% della tassazione IRPEF di riferimento sull’ingaggio dei calciatori professionisti stranieri che decidono di venire a giocare in Italia.

La nazionale nostrana ha vinto l’Europeo con un’età media della rosa di 27,7 anni, in linea con quella di Germania (27,5) e Francia (27,8), inferiore alla Spagna (26,5) ed esattamente a metà tra tutte le squadre che hanno partecipato al torneo.

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Hanno brillato Donnarumma in porta (22 anni), Locatelli (23), Pessina (24) e Barella (24) a centrocampo, oltre a Federico Chiesa (23) in attacco. Si tratta di calciatori che sono stati indiscussi titolari nel campionato di calcio 2020/2021, ma che – realisticamente – troverebbero assai meno spazio in tutti i top club d’Europa (interessante sarà capire in questo senso lo spazio che si ritaglierà il portierone azzurro a Parigi).

La questione, dunque, va affrontata come si fa normalmente in medicina: anamnesi, diagnosi e – poi – cura, con quest’ultima che, necessariamente, coinvolge Governo, Amministrazioni Locali e corpi intermedi.

L’Italia deve ricominciare ad investire nello sport, riconoscendogli valore pedagogico e formativo, creando nuove strutture, rimodernando quelle esistenti ed abbassando tutte le barriere all’entrata che impediscono ai bambini ed ai giovanissimi (con le loro famiglie) di praticare attività che nascono come gioco e diventano (per alcuni) impegno agonistico di livello.

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Delocalizzare i centri di formazione sportiva di qualità ed innalzare le capacità e le competenze dei formatori, dei preparatori e degli allenatori, facilita la scoperta di talenti che, spesso, rimangono nascosti.

Lo sport, segnatamente il calcio (ma vale per tutti quelli che stanno regalando sogni azzurri come l’atletica, il tennis, il nuoto, ecc…), è anche motore di economia, leva sociale e trampolino di lancio per realtà territoriali che difettano in altri settori quali quello primario e secondario.

Prima di abbandonarsi a riflessioni monche (e – per quel che si è detto – non del tutto vere), se vuol ragionarsi di eccellenza sportiva e di orgoglio tricolore bisogna spostare lo sguardo un po’ più in là, auspicare la creazione di un tavolo tecnico, fare brainstorming, innovare i modelli e ripensare i processi.

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Una generazione di talenti tutta italiana non si crea in laboratorio e non si forma riducendo il numero di stranieri nel massimo campionato di calcio. Perché se il calciatore italiano è di qualità, gioca e si afferma ovunque perché è bravo.

L’intero movimento nazionale ha una doppia sfida alle porte da vincere: da un lato quella della creazione di nuovi modelli ed occasioni di crescita e formazione individuale, dall’altra quella di mantenere alta la competitività ed il livello di un campionato nazionale che, differentemente, continuerà a perdere – come avviene da anni – gli stranieri più talentuosi e rischierà di veder partire oltre confine i propri giovani più promettenti (vedasi quanto accaduto con Donnarumma e Verratti).

Perché se per anni si è temuto che l’Italia non fosse un Paese per vecchi, il dramma più grande sarebbe voltarsi indietro e capire che il campionato italiano non è più un torneo “per giovani”, realizzando che il tutto non è esattamente colpa dei calciatori stranieri.

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