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NUMERO 14 – La tristezza del clown

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Quando c’è da distrarre l’attenzione da un evento traumatico si ricorre a lui. Per cancellare l’angoscia dallo sguardo degli spettatori lo si fa entrare in scena. Lo racconta il poeta romanesco Trilussa, il pagliaccio fa il suo ingresso in seguito alla morte accidentale di un trapezista durante il suo numero. E’ l’unico a poter portare avanti lo spettacolo. E, nel farlo, ricorda a tutti che la vita va avanti. E che la tristezza bisogna ricacciarla indietro. Assieme alle lacrime.

Apartheid al contrario

Bruce Grobbelar, portiere del Liverpool, è un clown. Lo è anche agli occhi dei tifosi della sua squadra, i mugugni dalle tribune si sono sprecati sin dal suo esordio. Poi sono venuti i fischi, accompagnati dal lancio di monetine da un penny, per umiliarlo. Lui fa spallucce e le raccoglie, facendo sardonicamente intendere di farne collezione. E poi riprende ad esercitare il suo ruolo, come se nulla fosse. E’ sempre stato cosi, per lui, nativo di Durban, in Sudafrica. Un posto di chiara influenza anglosassone, con cricket e rugby come sport di riferimento. Attività che lui stesso ha praticato ma che ben presto sono state soppiantate dai guantoni da portiere di football. Inizia giocando negli Jomo Cosmos di Johannesburg ma ben presto si ritrova ai margini dello spogliatoio. I suoi compagni di squadra sono tutti di colore, un bianco non è ben accetto. Grobbelar è costretto quindi ad emigrare in Rhodesia ma la situazione si ripete. Una singolare forma di apartheid al contrario gli impedisce di praticare il “suo” sport. Senza contare che i suoi atteggiamenti provocatori gli fruttano la fama di buffone. Uno che scoppia a ridere senza motivo, sgonfia i palloni per passatempo e canzona tutti non sarà mai un portiere affidabile, uno che trasmetta sicurezza ai compagni. Ma nessun allenatore si prende la briga di indagare sui motivi di un  approccio cosi scanzonato al suo lavoro. Su quanta tristezza debba aver accumulato per decidere di combatterla travestendosi perpetuamente da pagliaccio.

Uccidere o essere ucciso

Ha un passato da mercenario, caso unico per un calciatore. Dopo le prime, deludenti esperienze da portiere ha abdicato al suo sogno di diventare un professionista e ha imbracciato il fucile. Arruolatosi volontario a 17 anni nella Guardia Nazionale della Rhodesia, si trova coinvolto nella guerra civile che devasta il paese a partire dal Natale del 1975. La sua guarnigione è di stanza ai confini del Mozambico. Fino al giorno prima scherzava e fumava assieme ai suoi connazionali, adesso deve trattenere il respiro ed accovacciarsi di colpo quando arrivano. Hanno addosso una divisa di colore diverso e l’ordine di sparare a vista. Esattamente come lui, costretto ad ucciderli prima che loro facciano lo stesso. Una, due, tre, infinite volte fino a che il cervello, per non farti impazzire, ti suggerisce che, in fondo, ci si può abituare anche ad essere un assassino. O che si possa anche ridere di questo assurdo conflitto. Il soldato Grobbelar esorcizza la paura della morte facendo il pagliaccio per i suoi commilitoni. Avrà pure qualche rotella fuori posto ma è un matto simpatico. Talmente matto da affermare che, finita la guerra, ha deciso di rispolverare il suo vecchio sogno. Vuole giocare a calcio da professionista.

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Dal Canada all’Inghilterra

Nel 1979 arriva il sospirato armistizio e, Grobbelar, ottenuto il congedo, dismette la divisa per indossare nuovamente maglietta e pantaloncini. Un provino andato a buon fine gli procura un ingaggio nella squadra canadese dei Vancouver Whitecaps. Il club milita nella North American Soccer League, un campionato mediocre dal punto di vista tecnico ma molto impegnativo su quello atletico. L’ideale per fare gavetta e mettere a punto il proprio modo di stare in porta, poco ortodosso ma efficace. E  il giorno del debutto, contro i Los Angeles Aztecs, si ritrova di fronte a un mito del calcio come l’olandese Johan Cruyff, venuto a concludere la carriera negli States. E’ una sconfitta per 2 a 0 con un gol firmato dal fuoriclasse orange ma la sua sola presenza  prova che Grobbelar ha finalmente fatto la conoscenza del vero football. Dopo quel match torna in panchina ma la sua squadra riesce a raggiungere i playoff della NASL. E, a fine campionato, mentre si trova in vacanza in Inghilterra, riceve una proposta da Ron Atkinson, manager del West Bromwich, club della prima divisione del campionato britannico. L’ha visto all’opera, pensa che abbia delle potenzialità, lo vuole nella sua squadra. L’accordo non va in porto per problemi legati al permesso di soggiorno ma l’arrivo di Grobbelar in terra d’Albione è solo rimandato.

Arrivo a Liverpool

Dopo qualche mese, infatti, passa in prestito al Crewe Alexandra, club della quarta divisione. E’ una piccola squadra, naviga nei bassifondi della classifica ma è un buon punto di partenza. Diventa subito il portiere titolare e contribuisce ad evitare la retrocessione. Il suo ambientamento è repentino, è affabile, curioso di tutto e ha un gran rapporto con i tifosi. Le sue eccellenti prestazioni suscitano l’interesse di Tony Saunders, scout della prestigiosa squadra del Liverpool. Lo vorrebbe mettere subito sotto contratto ma la scadenza del prestito impone il ritorno in Canada, a Vancouver. Solo dopo la conquista della NASL 1980, giocata da titolare, la trattativa può decollare. Il suo allenatore Tony Waiters, ex portiere della nazionale inglese, da il suo benestare al trasferimento e gli augura una grande carriera nella sua madrepatria. Nel marzo del 1981 Bruce Grobbelar è un giocatore del Liverpool.

Il principe pagliaccio

Non è facile imporsi nel suo nuovo club. A difendere i pali c’è Ray Clemence, un veterano con alle spalle una carriera di tutto rispetto, sia con i club che con la rappresentativa nazionale. L’allenatore vorrebbe fargli fare un paio di anni di apprendistato dietro di lui prima di procedere all’avvicendamento. Grobbelar  è  di diverso avviso: si sente già pronto, dice al suo collega che perderà il posto prima della fine del campionato. Clemence lo prende per matto ma sentire sul collo il fiato dell’ambizioso nuovo arrivato non è il massimo della vita. Dopo qualche mese chiede di essere ceduto ad un altro club, la porta del Liverpool ha un nuovo inquilino. Che non tradisce per nulla il suo stile di vita e suo modo di parare. Molti storcono la bocca, altri lo disprezzano apertamente, si arriva per lui a coniare il soprannome di “Bruce The Clown”. Non si era mai visto prima uno cosi, espressione distratta e sguardo sarcastico. Eppure il mestiere lo conosce bene, i riflessi e l’agilità non gli fanno difetto. Con lui tra i pali il Liverpool si impone anche a livello internazionale, con la conquista della Coppa dei Campioni 1983-84. Bruce è il protagonista della finale: si gioca allo stadio Olimpico di Roma e l’avversario è proprio la squadra di casa. L’1 a 1 dopo i supplementari impone il ricorso ai calci dal dischetto. Dopo il primo rigore il Liverpool è in svantaggio, adesso è tutto nelle sue mani.  Lui si affida al suo istinto, muove le gambe in modo sghembo, fa boccacce, morde i fili della rete come fossero spaghetti. Il suo avversario diretto, l’ala Bruno Conti, si fa ipnotizzare dal suo show e sbaglia la battuta. Stesso copione poco più tardi: balletto provocatorio, smorfie all’indirizzo del tiratore e errore del centravanti Graziani. La Coppa è del Liverpool, il merito è tutto del suo portiere, da allora “The prince clown”, il principe pagliaccio.

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Ritorno sul luogo della tragedia

Il trionfo di Roma sarà pagato con gli interessi l’anno dopo. Ancora una finale di Coppa di Campioni, ancora una squadra italiana come avversaria. Stavolta tocca alla Juventus e il luogo è lo stadio Heysel di Bruxelles. In realtà la partita si svolge come se tutti fossero in apnea. Poco prima del calcio d’inizio c’è stato un contatto tra le due tifoserie, ci sono stati scontri sugli spalti e voci non confermate parlano di decine di vittime. I calciatori delle due squadra vengono avvisati negli spogliatoi e non vorrebbero scendere in campo. Ma si decide di disputare ugualmente la partita per motivazioni di ordine pubblico. Si giocano novanta minuti in una atmosfera di disperazione e solo un discusso calcio di rigore assegna il trofeo alla Juventus. E’ una vittoria dal sapore amaro, gli italiani non sanno che farsene della Coppa mentre gli inglesi sono a testa bassa, pieni di vergogna per quanto fatto dai loro sostenitori. Grobbelar è sconvolto, ripensa al suo passato, riflette se sia opportuno andare avanti. Alla fine decide di continuare ma solo per incappare in un altro tragico evento. Il 15 Aprile 1989, allo stadio di Hillsbourough, a Sheffield, assiste alla morte di ben 96 tifosi della sua squadra, rimasti schiacciati nel tentativo di raggiungere la curva ovest dell’impianto. E’ un nuovo eccidio, simile a quelli visti da ragazzo al confine con il Mozambico, simile a quello di quattro anni prima a Bruxelles. A distanza di anni, nel tentativo di metabolizzare l’evento, di fare pace con la sua mente, Bruce tornerà sia in quel posto che all’Heysel. Solo un pagliaccio sa davvero cosa sia la tristezza.

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