Approfondimenti
Ettore e non Achille
Non era la prima volta che veniva a trovarlo. La morte, intendo. Il Destino aveva già colpito più volte quel ragazzo lombardo, condannandolo a farsi uomo molto in fretta. La prima visita a soli nove anni: il padre Ugo, veterano di guerra scampato a ben tre conflitti, lasciava la famiglia a causa di un incidente sul lavoro. Due anni dopo era il turno della sorella Candida, stroncata da una malattia reumatica. E quando il diciottenne Gigi Riva, fresco del suo primo contratto da professionista con il Legnano, cominciava ad intravedere nel calcio un futuro al di là di questi traumi, ecco un nuovo lutto. L’amatissima madre Edis doveva arrendersi ad un cancro. Il rimedio a questa catena di disgrazie è stata anche la sua occasione di riscatto. Ha tramutato la rabbia per le perdite subite nel propellente per arrivare dove nessun altro era giunto. E’ stato il simbolo di una terra che l’ha adottato come figlio prediletto, ripagandolo delle amarezze dell’infanzia. E quando il suo cuore ha cessato di lottare Cagliari e la Sardegna hanno dato l’addio al loro più grande guerriero. Riva ha sempre combattuto per la sua città, mai per la gloria. E’ stato Ettore e non Achille.
Questa è l’Africa?
Non era stato un amore a prima vista. Agli occhi di quell’adolescente inesperto, mai mosso un passo fuori dalla provincia di Varese, il trasferimento in Sardegna appariva come l’ennesimo rospo da ingoiare. Un posto sconosciuto, remoto, selvatico. Un passo indietro nella sua carriera, una tappa assolutamente da evitare. Eppure i dirigenti del Cagliari non mollavano la presa, erano rimasti stregati dalla forza intravista in quel sinistro al fulmicotone. Alla fine Gigi, scortato dall’inseparabile sorella maggiore Fausta, era salito a malincuore sull’aereo che doveva portarlo a destinazione. Un viaggio interminabile, i dubbi che crescevano ad ogni scalo, la voglia di andarsene prima ancora di mettere piede sull’isola. E quelle luci che gli apparivano in lontananza, erano forse l’indice che era arrivato in Africa? Doveva essere l’inizio di una nuova vita per lui, ma gli appariva come un crepuscolo. Si sentiva in esilio, Cagliari era il luogo dove scontare le sue colpe. Non poteva assolutamente immaginare quanto si sarebbe identificato in quel luogo, al punto di rifiutare ogni altra possibile collocazione, per quanto remunerativa fosse. E’ stato Ettore e non Achille.
Un campo di sabbia
Il primo impatto con il suo nuovo stadio non è dei migliori: all’Amsicora non esiste l’erba, c’è soltanto sabbia. Ad ogni caduta c’è il rischio di lasciarci qualche lembo di pelle. E’ il primo banco di prova per il ragazzo venuto dalla Padania, vediamo se ha paura di farsi male. Non c’è bisogno, comunque, di aspettare molto. L’istinto di Gigi non lo tradisce mai, non appena il pallone gli viene a tiro dimentica l’assenza del prato e sgancia le sue tremende stangate con il mancino. I dirigenti si danno di gomito, l’allenatore si lascia scappare un sorriso, quel tipo ha del carattere. Il suo ambientamento è caratterizzato dalla simbiosi con i compagni di squadra. Vive nella foresteria che la società riserva ai calciatori scapoli, condivide ogni attimo, anche i momenti di svago, con i colleghi di spogliatoio. A poco a poco smussa le ruvidezze dell’animo e si apre ad una nuova fase della sua esistenza. E si sente sempre più coinvolto nel progetto, si può puntare in alto anche vestendo la casacca rossoblu. Anzi, diventandone un emblema in barba alle lusinghe degli altri. E’ stato Ettore e non Achille.
Senso di appartenenza
Il primo avversario da battere è un suo compagno. Tonino Congiu, sardo purosangue, è l’idolo dei tifosi locali. Titolare indiscusso, la maglia numero 11 è roba sua. Almeno fino all’arrivo di Riva. Congiu gioca nel suo ruolo, sfilargli il posto è l’unico modo per scendere in campo. Il suo sinistro è il miglior lasciapassare: già al primo anno firma nove reti e risulta decisivo per la promozione in Serie A. Congiu deve accomodarsi in panchina, la curva deve smetterla di guardarlo di sbieco. Adesso lui e la città sono una cosa sola, la Sardegna gli è entrata nel sangue. A farlo sentire in famiglia sono stati i piccoli gesti della gente comune. Spesso è stato a pranzo dai vicini, gli hanno insegnato a mangiare il pesce con le mani. Una passeggiata al porto finisce sempre con l’invito ad unirsi all’imbarco per una gita sul mare. Le frequenti incursioni nell’entroterra sono il preludio a lunghe chiacchierate con i contadini sulle leggende del posto. Si sente uno di loro e lo sarà per sempre. Per scelta e non per convenienza. E’ stato Ettore e non Achille.
Il sogno più grande
C’è un solo modo, per lui, di ripagare tutto quello che ha ricevuto dalla sua gente. Regalargli il traguardo più grande, quello che prima a Cagliari non si osava neanche sognare. Lo scudetto del 1970 lo consegna alla storia dell’isola: non è solo un trionfo sportivo, è il riscatto di una intera regione. Prima che lui arrivasse la Sardegna, agli occhi del resto d’Italia, era un posto buono solo per pastori e banditi. Lui ha saputo, con vigore e tenacia, imporre a tutti una visione completamente diversa. E l’ha fatto con l’atteggiamento del soldato che impugna le armi solo per difendere quello a cui tiene di più, la sua patria e la sua famiglia. E’ stato Ettore e non Achille.