Approfondimenti
NUMERO 14 – La perfezione dell’incompiuto
Un tiro a rete impossibile scoccato dalla propria metà campo. Un secco colpo di testa che indirizza la palla nell’angolino più lontano. Una diabolica finta di corpo che disorienta tutti, a partire dal portiere avversario. Sono tre delle invenzioni di Pelè, la stella della Selecao brasiliana, ai Mondiali del 1970 in Messico. Tre azioni di gioco inconcepibili per qualunque altro. Tre momenti di purissima estetica del calcio. Poco importa se nessuna delle tre si è tramutata in gol, per bravura del rivale o per qualche centimetro mancante. Quello che resta è l’incommensurabile pulizia formale del gesto, del felice esito ne facciamo tranquillamente a meno. E’ la perfezione dell’incompiuto.
Un sovrano in decadenza
In realtà, il numero 10 della Nazionale brasiliana non si presenta alla rassegna iridata al massimo della forma. E neanche della reputazione. Sono stati anni difficili per lui, l’ultimo Mondiale disputato, quello del 1966 in Inghilterra, è stato un disastro. Pelè non è riuscito a giocare come sa, gli avversari lo hanno sistematicamente azzoppato pur di fermarlo, il Brasile è uscito di scena già alla fine del primo turno. L’ultima sua immagine con la maglia verdeoro è quella che lo vede in ginocchio, ai piedi di Eusebio, il suo diretto concorrente, dopo la sconfitta contro il Portogallo. E’ la scena che è rimasta nella mente di tutti, anche dei suoi compatrioti, ormai in buona parte convinti che la sua leggenda sia arrivata ai titoli di coda. Troppi impegni, troppe pressioni da sopportare, persino troppi titoli in bacheca. E’ opinione comune che O Rei do futbol abbia già da tempo raggiunto l’apice della carriera e che sia iniziata la sua parabola discendente. Come un sovrano in decadenza che, da un momento all’altro, annuncerà la sua rinuncia allo scettro del comando.
Ritiro sull’Aventino
A dare per primo l’impressione di una rinuncia alle armi è stato proprio lui. L’esito infausto della competizione britannica lo ha indotto a dichiarare ai media che non avrebbe mai più giocato in Nazionale, tanto meno ai Mondiali. Una presa di posizione drastica, un atto di protesta contro il dilagare del gioco duro che tanto l’ha condizionato nelle ultime partite disputate. E’ sicuramente vero che in terra albionica gli arbitri sono stati eccessivamente permissivi verso gli eccessi di agonismo e che questo clima abbia sfavorito i giocatori di talento. Ma è altrettanto vero che la denuncia di Pelè suona, alle orecchie del pubblico, come il lamento di uno che pensa, ormai, solamente a tutelare una fama acquisita. E non con i fatti, perché ormai le gambe non fanno più il loro dovere, ma con le chiacchiere. O Rei non viene più visto dai suoi come un intrepido condottiero, ma come uno sdegnato dissidente capace solo di voltare le spalle e rintanarsi sul più isolato dei colli. Il suo ritiro sull’Aventino non è visto come una giustificata manifestazione di protesta ma come una dichiarazione di resa incondizionata.
Un giornalista come allenatore
La Federcalcio brasiliana prende atto della diserzione del loro miglior elemento con disappunto misto a distacco. Non vogliono farlo sentire indispensabile, considerata anche la sua spiccata propensione all’egocentrismo, e danno mandato al nuovo c. t., Paulo Machado de Carvalho, di costruire una Nazionale incentrata su altri giocatori. Il neoallenatore, da uomo pragmatico quale è, sa benissimo che impossibile fare a meno di Pelè senza risentirne sul piano del gioco. Ma sa altrettanto bene che l’intransigenza dei federali, direttamente ispirata dall’autoritarismo del regime militare da poco al potere, non gli lascia altra scelta. Tuttavia, a distanza di due anni, gli scarsi risultati conseguiti e la critica feroce dell’opinione pubblica impongono un cambio di rotta. O Rei fa il suo trionfale reingresso in Nazionale a furor di popolo mentre sulla panchina Machado lascia il posto a Joao Saldanha, un giornalista di sinistra alla sua prima esperienza di allenatore. O quasi.
Problemi di vista
La sua storia è incredibile e paradossale allo stesso tempo. Saldanha è bravo nel suo lavoro di commentatore sportivo. Talmente bravo che più di un dirigente pensa che potrebbe far meglio degli allenatori che fustiga con i suoi interventi arguti. Alla fine il Botafogo lo ingaggia e lui, da tecnico debuttante, riesce a costruire una squadra capace di vincere il campionato carioca. Squadra che poi abbandona poco tempo dopo, dimettendosi in segno di protesta verso la cessione dei calciatori di maggior talento. Ritorna al giornalismo, distinguendosi anche per l’aperta critica ai metodi di lavoro dei dirigenti federali, dettati dal conformismo ai diktat della giunta militare governativa. Tuttavia, con un coup de théãtre, il Presidente della Federcalcio brasiliana, Joao Havelange, decide di affidare proprio a lui la Nazionale, nella speranza di tacitare le impietose critiche della stampa. Come avrebbero potuto i giornalisti prendersela con il lavoro di un loro collega? Saldanha, dal canto suo, affronta il suo nuovo compito con la spavalderia che non gli ha mai fatto difetto. Annuncia l’adozione di uno spregiudicato modulo iperoffensivo, il 4-2-4, e convoca tutti i migliori giocatori del paese. Compreso Pelè, per il quale però non stravede. Lo considera egoista, poco disciplinato dal punto di vista tattico. Inoltre ritiene che abbia problemi alla vista.
Convergenza di interessi
Non che abbia tutti i torti. In effetti, O Rei qualche diottria in meno ce l’ha per davvero. In compenso il suo talento gli ha talmente affinato gli altri quattro sensi da renderlo un rabdomante del pallone. Non ha bisogno di vederlo: lo sente, lo annusa, lo cattura. Con lui in squadra la qualificazione al Mondiale è una formalità: 6 partite, 6 vittorie, 23 gol fatti e solo due subiti. Pelè è una furia, firma 6 reti in altrettanti incontri, ribadisce la sua voglia di mettere una firma indelebile sull’imminente torneo. Come da precisi accordi con il Presidente Havelange, il principale artefice del suo ritorno. Il rampante dirigente brasiliano punta in alto, vuole arrivare ai vertici della FIFA. E ha bisogno di una vittoria nel Mondiale del suo paese per guadagnare credibilità agli occhi dei suoi potenziali elettori. Sa bene chi è l’unico che possa garantirgli il successo che gli serve, sa altrettanto bene di cosa ha bisogno. Pelè, truffato dal suo agente, ha grossi problemi finanziari e fiscali. Havelange, pur di averlo ai Mondiali, stringe accordi con il governo brasiliano per fargli avere un condono e promette grossi compensi se tornerà con la Coppa del Mondo. Una singolare convergenza di interessi per spianare la strada al Brasile verso il titolo.
Brasile – Cecoslovacchia
La partita d’esordio ai Mondiali messicani è anche quella del suo primo non gol. Gli arcigni avversari riescono ad andare in vantaggio. Una punizione di Rivelino porta il risultato in parità ma è chiaro che al Brasile serve una vittoria convincente. Pelè gioca in maniera sopraffina, dispensa suggerimenti ed assist ai compagni, tiene d’occhio soprattutto il portiere avversario. Ha notato che tende ad allontanarsi dalla linea di porta quando la palla è lontana e tenta il colpo grosso. E’ il 42esimo minuto, O Rei si trova con il pallone tra i piedi, cinque metri dietro la linea di metà campo. Alza lo sguardo, vede il portiere fuori dai pali e decide di provarci. Prende la mira, arma il suo piede destro e scaglia una saetta diretta verso la porta. Per chi ama le statistiche: il tiro parte a 105 km/h, percorre circa 60 metri di campo, non entra per soli 50 centimetri. E’ rimasto nell’immaginario popolare come il “gol che Pelè non fece”, è divenuto un modo di dire per indicare un gesto tecnico di incomparabile bellezza. Non conta il risultato finale, conta la costruzione della giocata. La perfezione dell’incompiuto.
Brasile – Inghilterra
Seconda partita dei brasiliani, secondo non gol di O Rei. Stavolta l’avversario è L’Inghilterra. I campioni del mondo in carica si presentano al Mondiale da favoriti, affrontarli è difficile per chiunque. Al decimo minuto l’ala Jairzinho supera un avversario sulla fascia destra del campo e poi pennella un perfetto traversone al centro dell’area degli inglesi. Sul secondo palo è appostato Pelè che, con perfetta scelta di tempo, stacca e poi indirizza il pallone nell’angolo basso con una secca incornata. La sfera rimbalza a terra e sembra destinata inesorabilmente ad insaccarsi. Ma il portiere britannico, Gordon Banks, non si da per vinto e si produce in uno spettacolare tuffo con la mano protesa. Mentre O Rei, sicuro della marcatura, accenna ad esultare la mano di Banks riesce nell’impossibile: impatta il pallone e lo toglie dalla porta deviandolo in angolo. Il campione brasiliano, incredulo, non può far altro che abbracciare l’avversario e congratularsi. Sa bene che aveva di fatto segnato un gol, solo l’abilità di Banks è riuscita a negarglielo. Questa azione è rimasta nell’immaginario collettivo come “la parata del Secolo” ma tutti ricordano ancora l’impeccabile colpo di testa di Pelè. La perfezione dell’incompiuto.
Brasile – Uruguay
La semifinale del torneo non è una partita come le altre per i brasiliani. Non può esserlo, lo spettro della sconfitta del 1950, il famigerato Maracanazo, è ancora vivo. Gli uruguaiani vanno presto in vantaggio, i carioca rispondono con tre gol. L’accesso alla finale è ormai garantito quando O Rei regala al pubblico la terza prodezza, il terzo non gol. Stavolta l’assist è di Tostao, un lancio per vie centrali. Pelè corre verso la porta, gli si fa incontro Mazurkiewicz, il portiere avversario, uno dei migliori nel suo ruolo. Lo conosce, lo teme, si lancia contro di lui a corpo morto per fermarlo. Il numero 10 del Brasile l’ha visto, ha calcolato minuziosamente i tempi, sa esattamente cosa fare. Muove il bacino, si sposta di lato, finge di toccare il pallone e va dall’altro lato, aggirando l’estremo difensore uruguaiano. Dopo recupera il pallone e con un tiro incrociato lo indirizza all’angolo. Esce di un soffio, tra le grida estasiate del pubblico. E’ l’ennesima dimostrazione della sua superiore visione di gioco, in un attimo ha disposto nella sua mente la posizione esatta di pallone, compagni ed avversari. E si è regolato di conseguenza, scegliendo il tempo e il modo per la miglior giocata possibile. Che solo per un caso non è andata a compimento. La perfezione dell’incompiuto.