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CALCIO E STORIA – La battaglia di Santiago
Gli italiani attaccati alla radio la sera del 2 giugno del 1962, devono aver pensato che stessero ascoltando la radiocronaca di un incontro di Nino Benvenuti, il pugile italiano che vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma due anni prima.
In realtà, si trattava della radiocronaca di una partita di calcio, Italia-Cile, seconda partita del girone eliminatorio dei Mondiali di calcio, che si giocò a Santiago del Cile e che fu battezzata la “battaglia di Santiago”.
Un nome, quello di Santiago, che rende in spagnolo il nome dell’apostolo Giacomo, famoso per il suo carattere focoso, e che fu soprannominato, dallo stesso Gesù, il “ figlio del tuono”.
A impersonare le “fattezze” caratteriali dell’apostolo e le virtù pugilistiche tanto care agli ammiratori di Benvenuti, fu un certo Sanchez, attaccante della nazionale cilena che, tra un tocco di palla e un dribbling, dopo appena sette minuti, colpì con un pugno l’azzurro Maschio, in un parapiglia che si scatenò per un fallo di reazione dell’italiano Ferrini.
Ferrini venne espulso e trascinato a forza fuori dal campo, dopo aver visto il naso rotto e sanguinante di Maschio.
La partita divenne una vera propria corrida con entrate assassine e scorrettezze di ogni tipo, ma l’arbitro inglese Aston pensò bene di vestire i panni, anzi la toga, di Ponzio Pilato.
Nei minuti finali del primo tempo, Sanchez colpì con un altro pugno David – niente a che vedere con l’antenato di Gesù – ma un semplice centrocampista italiano, il quale reagì colpendo con un calcio alla testa l’indemoniato Sanchez.
L’arbitro cacciò fuori dal campo solo l’azzurro e, incredibilmente, non prese alcun provvedimento nei confronti dell’attaccante cileno.
Il povero David andò su tutte le furie e dovettero intervenire i soldati romani, pardon, la polizia cilena per portarlo di peso fuori dal campo.
Alla fine del primo tempo il risultato era di zero a zero, con l’Italia ridotta in nove uomini.
Per comprendere i motivi di tanta acredine da parte dei giocatori del Cile nei confronti degli azzurri, occorre però fare un passo indietro.
Alla vigilia del mondiale, infatti, alcuni giornalisti italiani definirono il Cile come un “paese sottosviluppato”, dove regnavano analfabetismo e denutrizione, prostituzione e miseria. “Il Cile sul piano del sottosviluppo deve essere messo sul piano dell’Africa… ”: queste erano alcune delle cose che scrissero.
Il paese sudamericano, nel 1960, fu effettivamente colpito da un grave terremoto che provocò danni e macerie, ma il Cile riusci comunque a ricostruirsi e a completare gli stadi per il Mondiale del ’62.
Tuttavia, i giornalisti italiani, anziché approfondire gli aspetti tecnici e sportivi, esagerarono con la descrizione negativa dei temi sociali ed economici della nazione ospitante.
Fu così che i giocatori cileni, alla vista delle maglie azzurre, si ricordarono delle parole offensive dei giornali italiani e diedero vita ad una vera e propria “caccia all’italiano”.
La partita, per la cronaca, finì col risultato di due a zero.
La nazionale italiana resistette fino al 73’, prima di incassare le due reti che di fatto sancirono l’inevitabile sconfitta.
Quella sconfitta determinò anche l’eliminazione dell’Italia dal Mondiale.
A distanza di anni, l’arbitro Aston, a proposito di Cile-Italia, raccontò di aver arbitrato una “guerra, non una partita”.
Lo stesso Aston, nel 1970, fu l’artefice dell’introduzione dei cartellini gialli e rossi.
Chissà se non fu proprio l’aver diretto la battaglia di Santiago a suggerirgli l’introduzione di tali strumenti.
In realtà, i cartellini gialli e rossi sarebbe stato opportuno sventolarli all’indirizzo di alcuni giornalisti dell’epoca che, in virtù del diritto di cronaca, si permisero di esprimere giudizi pesanti e comunque non attinenti agli aspetti sportivi di un mondiale di calcio.
Andrea Schiano di Zenise